“Preservare” l’ambiente, “difendere” la democrazia, “tutelare” i diritti. Da Platone a Nanni Moretti sono stati in tanti a riflettere sull’importanza di scegliere le parole. Ma in tutta la grammatica, oggi forse sono i verbi quelli che finiscono per tracciare davvero i caratteri del nostro modello di società.

Nel caso delle frasi citate, così centrali nella comunicazione dell’odierna cultura progressista, è interessante notare quanto siano costruite intorno a verbi solitamente associati a una tradizione conservatrice. La medesima che vuole “preservare” la famiglia, “difendere” la patria e persino “tutelare” i diritti, anche se, evidentemente, non gli stessi cari agli avversari. Identici verbi, per una identica necessità: proteggersi dalle minacce esterne, come se, in un caso e nell’altro, vivessimo sotto un costante pericolo e fosse imperativo resistere piuttosto che slanciarsi in avanti, per immaginare il cambiamento anziché subirlo.

Il futuro che manca

Certo, per usare verbi capaci di declinarsi al futuro bisognerebbe poterne immaginare uno: una prospettiva tutt’altro che scontata ad esempio per quei ragazzi che definiscono sé stessi come “Ultima generazione”. E se la speranza è che il nome degli attivisti ambientali sia per ora un’iperbole pessimista, per molti dei loro coetanei il domani sembra davvero un’ipotesi difficile da concepire. La grossa differenza tra l’epoca che stiamo vivendo e le crisi del passato è tutta qui: il pericolo di autodistruzione, pandemie e disastri non ci aveva mai impedito di credere in un futuro di progresso per la nostra civiltà e agire in funzione di esso. Oggi invece i verbi che invocano una qualche forma di conservazione sembrano gli unici in grado di darci sicurezza. Non riuscendo più a sognare, ci convinciamo che preservare, difendere e tutelare siano azioni costruttive. Abbiamo persino reso popolare un termine tecnico come “resilienza” per darci l’illusione che la semplice resistenza contenga una scintilla di dinamismo.

Ritorno al passato

Un riverbero di questa mentalità lo vediamo anche in una tragedia come l’inondazione che ha devastato l’Emilia Romagna nei giorni scorsi: mentre si piangono le vittime e calcolano i danni, il tempo della solidarietà e degli abbracci viene contraddistinto dal verbo “ricostruire”. È un auspicio legittimo e condivisibile: rimarginare le ferite è il primo passo per far fronte al dolore e riprendere a vivere, ma ricostruire è un altro di quei verbi che sottintendono la volontà di ritornare alla situazione pregressa. Invece, lo sappiamo bene, niente dovrà tornare esattamente come prima, se vogliamo evitare che la tragedia si verifichi nuovamente al ripetersi delle medesime condizioni. Ricostruire è un ottimo verbo per dare speranza e sostegno a chi ha perso tutto, ma la vera sfida è quella di “costruire" qualcosa di nuovo, a partire da idee inedite di futuro.

Un celebre aforisma di Leo Longanesi recita: «Alla manutenzione, l’Italia preferisce l’inaugurazione»; il paradosso è che, in un paese perennemente in emergenza, sempre più spesso anche l’inaugurazione finisce per diventare la versione aggiornata dell’esistente. Tagliamo nastri di ponti ricostruiti, di edifici rimodernati, di strade terminate oggi, ma progettate in un altro secolo. I cantieri diventano allora facile metafora della nostra impossibilità di creare qualcosa di veramente nuovo per accontentarci di puntellare visioni vetuste appena restaurate.

Chissà che allora per tornare a immaginare il futuro non si debba ripartire proprio dalle parole, ancor prima che dai cantieri: verbi diversi, capaci di edificare col loro stesso suono idee del domani talmente alte e luminose da spronarci a camminare anche nel fango pur di raggiungerle. Se sapremo creare gli spazi per coniarli, se lasceremo in bianco le pagine del dizionario, allora sarà più probabile che qualcuno potrà trovare il modo di pronunciarli e renderli possibili.

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