Lorenzo Codogno su queste colonne utilizza i dati dei conti pubblici italiani per confutare l’opinione diffusa che l’inflazione avvantaggi i debitori, riducendo il valore reale dell’indebitamento, che per lo stato significa una riduzione del rapporto debito/Pil.

Le argomentazioni addotte sono opinabili, ma l’argomento è rilevante per il cruciale dilemma che le banche centrali saranno presto costrette ad affrontare: agire con determinazione per riportare rapidamente l’inflazione in linea con l’obiettivo del due per cento; o preoccuparsi piuttosto delle conseguenze recessive di una simile politica deflazionistica, preferendo un approccio graduale?

Ci sono due posizioni. C’è chi chiede alle banche centrali la massima determinazione nel ridurre l’inflazione perché, se diventasse endemica, il costo di eradicarla dall’economia crescerebbe esponenzialmente, come ci insegna l’esperienza di inizio anni Ottanta. Il corollario è che i paesi maggiormente indebitati debbano essere in grado comunque di ridurre il proprio indebitamento rispetto al Pil.

C’è poi una posizione “pragmatica”, sposata da molti investitori, che reputa eccessivi i costi sociali (disoccupazione, recessione, dissesti) di una vigorosa politica monetaria deflattiva, e la ritiene pertanto poco probabile perché anche le banche centrali non sono indifferenti all’opinione pubblica e alla politica, per i quali il rischio di recessione è un anatema.

Inoltre, la combinazione di inflazione e tassi reali contenuti o negativi, è stata storicamente la strada per ridurre i debiti pubblici dopo i periodi di eccezionale espansione fiscale (fenomeno noto come “repressione finanziaria”).

Prezzi e gettito

Ceteris paribus, l’inflazione riduce inequivocabilmente l’onere reale del debito pubblico, ovvero il rapporto debito/Pil. Per chi importa l’energia (come l’Italia) il suo costo riduce il deflatore del Pil (le importazioni entrano con il segno negativo nel calcolo del prodotto) e quindi il suo valore nominale; ma fa aumentare direttamente il deflatore di consumi e investimenti (come costo dei trasporti o riscaldamento) e, indirettamente di qualsiasi bene, aumentandone il costo di produzione e inducendo le imprese ad aumentare i prezzi, per difendere i margini.

Oggi poi gli aumenti di prezzo sono generalizzati e non riguardano solo l’energia: anche escludendola, i prezzi al consumo salgono del 6,4 per cento negli Usa e del 3,4 in Europa; molto più rapida la crescita dei prezzi alla produzione. L’inflazione è più elevata negli Stati Uniti, nonostante non importino gas russo.

L’inflazione, poi, aumenta il gettito tributario (gli introiti di Iva e accise crescono coi i prezzi; aumenta la tassazione delle imprese perché gli ammortamenti sono calcolati sui costi storici; e quella delle persone fisiche a causa della progressività delle aliquote), mentre la spesa pubblica per personale e trasferimenti in larga parte non è indicizzata. Infine, riduce il valore reale degli interessi sul debito a tasso fisso, preponderante in Italia.

Ma “ceteris paribus”: significa che il rapporto debito/Pil dipende anche da altri fattori che tendono ad aumentarlo.

Il peggioramento delle ragioni di scambio (per chi importa energia), la minor crescita dovuta alla riduzione della domanda di consumi per la perdita di potere di acquisto dei salari, e la compressione dei margini delle imprese riducono il Pil reale; che a sua volta aumenta la spesa pubblica per gli ammortizzatori.

Le banche e i tassi

Tutti fattori che dipendono indirettamente dalla politica che adotteranno le banche centrali, oltre all’impatto diretto dell’aumento dei tassi e della fine del quantitative easing (la Fed ha annunciato di voler ridurre i titoli in portafoglio per circa mille miliardi l’anno per tre anni, e la Bce dovrebbe terminare  gli acquisti entro la fine dell’estate).  

E qui sta il dilemma.

Se le banche centrali volessero riportare rapidamente l’inflazione al due per cento, dovrebbero portare i tassi oltre il livello dell’inflazione, in modo da avere tassi reali ampiamente positivi per un periodo sufficientemente prolungato da comprimere la domanda, abbastanza da far scendere i prezzi (negli Usa l’altro canale di trasmissione è l’effetto ricchezza causato dal crollo dei mercati che una simile politica monetaria causerebbe).

Bisogna poi tenere anche conto che per raffreddare la crescita dell’indice del costo della vita in presenza del caro energia, i prezzi dei beni consumati solo localmente (cosiddetti non tradables, come per esempio molti servizi) dovrebbero rallentare più che proporzionalmente.

Con l’attuale livello di inflazione, anche depurato della componente energetica, le banche centrali dovrebbero dunque alzare i tassi ben oltre le aspettative del mercato che per fine 2023 oggi scontano 3,3 per cento l’eurodollaro e 1,5 l’euribor, ovvero la metà dell’inflazione attuale.

Sono dati che, assieme alla resilienza dei mercati azionari, dimostra come molti sul mercato non ritengano probabile che le banche centrali, al di là delle dichiarazioni, siano pronte a dare l’assoluta priorità alla riduzione dell’inflazione: troppo elevato il rischio di recessione, disoccupazione e dissesti societari.

Il duplice effetto della minore inflazione e della caduta della crescita, aumentando entrambe il rapporto debito/Pil, rischiano inoltre di creare le condizioni per una crisi del debito pubblico di paesi altamente indebitati come l’Italia; che a sua volta metterebbe in crisi dell’euro.

Sono queste le ragioni per cui una politica monetaria che abbatta  con determinazione l’inflazione, per quanto desiderabile, non è quella più probabile.

Tre scenari

Bisogna quindi considerare quali sono gli altri scenari.

Il primo. L’inflazione rallenta autonomamente e bastano gli aumenti già incorporati nelle attese del mercato per riportarla al due per cento, senza rischio recessione o crisi del debito: irrealistico perché ipotizza di riportare sotto controllo l’inflazione senza un periodo prolungato di tassi reali positivi. 

Il secondo. La timidezza e i ritardi delle banche centrali fanno sì che l’inflazione diventi endemica e acceleri come successe negli anni Settanta: a differenza di allora, però è improbabile che si inneschi un circolo vizioso prezzi/salari perché i sindacati non hanno lo stesso potere negoziale e coprono un segmento più ristretto del mercato del lavoro, né i contratti, salari e affitti prevedono oggi clausole di indicizzazione automatica.

Il terzo. Le banche centrali mantengono un atteggiamento prudenziale accettando, nei fatti, che l’inflazione alla fine si stabilizzi a un livello superiore al due per cento, attente a minimizzare il rischio di recessione, e consapevoli del problema di smaltire l’eccesso di debito che si è accumulato nel mondo (possiamo anche non chiamarla repressione finanziaria, ma è esattamente quella).

Anche perché emergerà l’effetto strutturale sull’inflazione della demografia (invecchiamento della popolazione nel mondo), della trasformazione in atto dell’economia cinese a discapito dell’export di manufatti e componenti a basso costo, e dell’impatto della geopolitica sulla riorganizzazione delle filiere produttive, contro cui la politica monetaria è impotente.

Ritengo che il terzo sia lo scenario più probabile: anche la politica più desiderabile, se  manca di realismo, non è infatti quella con più probabilità di realizzarsi.

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