Qualche giorno fa, Donald Trump si è rivolto a una giornalista di Bloomberg con le parole «Quiet, piggy», mentre lei cercava chiarimenti sui documenti relativi al caso Epstein. Non è la prima volta, né sarà l’ultima, in cui il presidente degli Stati Uniti usa un linguaggio di questo tipo nei confronti di una donna; tuttavia, questo gesto non va letto come un episodio puramente personale, ma rientra in una dinamica sociale consolidata che sta vivendo un nuovo ritorno.
Il linguaggio funziona da sempre come strumento di potere: corpo e voce femminili diventano il terreno su cui si esercita e si riproduce un ordine di genere radicato. La storia mostra un pattern chiaro, ossia gli uomini parlano dei corpi delle donne, li giudicano e li ridicolizzano, mentre le donne raramente parlano dei corpi maschili e quando lo fanno, il loro impatto pubblico è minimo. La voce maschile è misura del mondo e sono quasi sempre gli uomini a permettersi gesti e commenti di questa portata.
Normalizzare la prevaricazione
Il bodyshaming rappresenta il primo campo di battaglia, al quale si aggiungono altre forme di svalutazione, come il catcalling e il mansplaining. Questa discrepanza non è casuale, ma riflette una costruzione culturale millenaria in cui il potere, pubblico e privato, è storicamente maschile e ogni forma di prevaricazione è stata normalizzata.
Parlare, giudicare e ridicolizzare le donne è ancora, in parte, socialmente tollerato, mentre la voce femminile, quando tenta di affermarsi, è percepita come anomala, fuori luogo o aggressiva. Il privilegio maschile si manifesta anche nella libertà di usare il linguaggio come arma senza subire conseguenze equivalenti.
Le arene del potere sono cambiate, ma la strategia persiste: si declina nei social, negli editoriali e nei dibattiti pubblici. La forma cambia, la funzione resta. Dissentire non significa necessariamente farlo con aggressività, eppure sembra che per molte persone di sesso maschile questo sia l’unica modalità possibile.
Il corpo delle donne, come sappiamo, è stato storicamente considerato proprietà, metafora morale e oggetto di controllo e la frequenza con cui gli uomini lo commentano indica ancora la sistematicità del sessismo linguistico. Parlarne era un esercizio di dominio e ancora oggi il linguaggio quotidiano conserva questi codici, spesso senza piena consapevolezza. Questo meccanismo si osserva anche nelle interazioni quotidiane: commenti su vestiti, peso, voce o modo di parlare sono ancora oggetto di dibattito o di denigrazione, anche se in modo diverso.
Vietato ignorare
Non è questione di “politically correct” o di scivoli morali individuali, ma una questione culturale. Ogni insulto, ogni commento offensivo contribuisce a cementare gerarchie e a definire ruoli sociali. Per le giovani generazioni, crescere in un contesto in cui la voce femminile è sistematicamente ridimensionata significa interiorizzare norme di disuguaglianza. Per questo, la sfida è educativa e culturale.
Non basta dire «non insultare», ma bisogna spiegare come il linguaggio strutturi relazioni di potere, bisogna mostrare che ogni parola porta con sé storia, contesto e peso simbolico. Bisogna educare alla consapevolezza semantica, mostrando che la parola può costruire o distruggere, liberare o dominare. Insomma, avremmo davvero bisogno anche di un’educazione all’affettività, ma questa è un’altra storia.
L’episodio «Quiet, piggy» è quindi solo l’ennesimo esempio chiaro di come il sessismo si riproduca nel linguaggio pubblico. Ignorarlo significa legittimare un ordine di genere esistente, mentre ciò che possiamo fare noi è comprendere, denunciare, discutere e trasformare, come stiamo facendo adesso.
Non si tratta di censurare certi termini o comportamenti, ma di insegnare a leggere la cultura del linguaggio, a riconoscere codici e gerarchie e a sviluppare senso critico. Solo così le nuove generazioni potranno costruire spazi pubblici più equi, dove le parole non servono a dominare, ma a partecipare.
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