La vittoria della destra era scontata, il disastro del centrosinistra meno. Perché queste elezioni regionali dovevano servire come test dei modelli alternativi all’egemonia del Pd nell’area alternativa a quella del centrodestra al potere.

Questi test sono falliti: il Movimento Cinque stelle di Giuseppe Conte non riesce a imporsi come polo alternativo di aggregazione dei consensi e punto di approdo dei delusi del Pd.

Il cosiddetto Terzo polo di Carlo Calenda e Matteo Renzi sta fallendo nel suo progetto politico: non riesce a essere decisivo, l’aritmetica lo rende irrilevante nel Lazio quanto in Lombardia, la scommessa di misurarsi con una candidatura forte autonoma, quella di Letizia Moratti alle regionali lombarde, non ha pagato.

Calenda non sta diventando il Jep Gambardella della Grande bellezza di Paolo Sorrentino: non riesce a organizzare le feste, ma non ha neanche il potere di farle fallire.

I disastri della gestione di Attilio Fontana in Lombardia sono risultati poco rilevanti, così come il fatto che il centrodestra abbia scelto un candidato relativamente poco conosciuto come Francesco Rocca nel Lazio, di cui si conoscono peccati di gioventù e punti deboli recenti, ma non le idee o i progetti per la regione.

Dopo le elezioni del 25 settembre, il segretario del Pd Enrico Letta ha preso atto del fallimento del suo progetto politico, quello di un campo largo capace di tenere dentro tutte le declinazioni del centrosinistra per costruire un argine alle destre.

Sfidato dai Cinque stelle a sinistra, gabbato dal voltafaccia di Calenda al centro, Letta si è trovato solo con le sinistre e ha annunciato di lasciare la segreteria di un partito che da allora è impegnato in un congresso infinito.

Ma oggi ha ragione Letta a rivendicare che le alternative al suo modello si sono rivelate peggiori: «In un quadro politico per noi particolarmente complicato e con il vento chiaramente contro, il Pd ottiene un risultato più che significativo, dimostra il suo sforzo coalizionale e respinge la sfida di M5S e Terzo Polo. Il tentativo ripetuto di sostituirci come forza principale dell’opposizione non è riuscito».

Letta non sarà un leader vincente, ma il disastro di Lazio e Lombardia non è attribuibile a lui: in Lombardia era anche disposto a valutare l’ipotesi Moratti, per togliere la regione alla destra, ma un grosso pezzo del Pd, soprattutto locale, lo ha impedito; nel Lazio il Pd governava con i Cinque stelle, non ci sarebbe stato niente di male a continuare con quella esperienza, ma da un lato Azione e dall’altro Conte hanno creato le condizioni per lasciare la vittoria inevitabilmente alla destra.

Dunque, al momento, non c’è un progetto nel centrosinistra. Vedremo al termine delle primarie del Pd, ma che vinca Stefano Bonaccini o Elly Schlein non si vede come si possano immaginare, al momento, soluzioni tattiche diverse da una coalizione con tutti i partner possibili.

I primi dati sul voto a destra, peraltro, rafforzano la stabilità della maggioranza invece che indebolirla: Fratelli d’Italia vince ma non stravince, la Lega ha comunque il governatore della Lombardia portato da Salvini, nel Lazio Giorgia Meloni ha dovuto prendere un nome esterno al partito per non rafforzare questa o quella corrente interna.

Quindi il centrosinistra non si può neanche appellare a una lettura ottimistica delle elezioni regionali, non c’è nessun “sì la destra ha vinto, ma…”. La sconfitta è completa.

Forse la risposta su come e dove ripartire il centrosinistra dovrebbe cercarla non nei risultati dei singoli partiti, ma nel dato dell’affluenza: 37,2 per cento nel Lazio contro il 66,55 del 2018, 41,7 in Lombardia contro il 73,11.

La quota di astenuti è ormai così rilevante da lasciare spazio non a recuperi da parte dei partiti esistenti, ma all’ingresso di nuove forze politiche capaci di riportare alle urne i delusi.

Che sia il partito ambientalista o qualunque altra cosa, è evidente che il menu attuale del centrosinistra è ormai indigesto per gli elettori.  

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