La campana che a Sanremo, ogni sera, ricorda «ogni bambino mai nato», su decisione del vescovo Suetta, è l’ennesima riproposizione di una pratica antica: quando quel suono viene usato per evocare il lutto, la morte e la colpa, ricondotti alle donne e alle loro scelte, diventa uno strumento di pressione morale e sociale che agisce contro chi esercita un diritto riconosciuto dall’ordinamento
A Sanremo il vescovo Antonio Suetta ha inaugurato una campana che farà suonare ogni sera «per ogni bambino mai nato». La notizia può sembrare grottesca o persino folcloristica, ma non lo è affatto. Non si tratta di un gesto isolato né innocuo, bensì dell’ennesima riproposizione di una pratica antica di stigmatizzazione simbolica delle donne che abortiscono.
Il suono delle campane, infatti, non è un atto neutro, ma rappresenta un linguaggio pubblico e quando viene usato per evocare il lutto, la morte e la colpa, ricondotti alle donne e alle loro scelte, diventa uno strumento di pressione morale e sociale che agisce contro chi esercita un diritto riconosciuto dall’ordinamento, trasformando una decisione legittima in una mancanza da espiare.
La “normale tollerabilità”
Non è la prima volta che accade: ripercorrendo i repertori di giurisprudenza all’indomani dell’entrata in vigore della legge 194, si rinviene il caso di un parroco che era solito protestare conto l’aborto praticato presso il vicino ospedale suonando le campane a lutto. Il parroco fu denunciato per disturbo alla quiete pubblica e per molestia e disturbo alle persone dal momento che, in astratto, l’uso delle campane non può essere indiscriminato e incontra dei limiti nei beni fondamentali, quali la salute dei cittadini, con riferimento al concetto di “normale tollerabilità”.
La normale tollerabilità avrebbe dovuto essere valutata allora, e pure oggi, anche alla luce della vicinanza della chiesa alla struttura sanitaria dove venivano eseguite le interruzioni di gravidanza, tenendo conto delle condizioni del personale sanitario del vicino ospedale e delle donne costrette ad accedere alla struttura pubblica e a sottoporsi alle prestazioni sanitarie prescelte con l’accompagnamento macabro del suono delle campane a lutto. Al contrario, le circostanze menzionate furono ignorate dal pretore di Desio, secondo il quale il rintocco delle campane era da ritenersi iscritto nella consuetudine locale e la condotta, oggettivamente molesta, fu considerata giustificata «dall’elevata moralità della protesta dell’imputato e le motivazioni religiose che la sostengono» (Pretura Desio, 7 gennaio 1987).
Questa è stata solo la prima di una serie variegata di condotte moleste riservate alle donne presso le strutture sanitarie e i consultori negli oltre quarant’anni di vigenza della legge 194: la libera decisione e il diritto a un aborto sicuro negli anni sono stati ripetutamente bersaglio nella quotidianità delle donne di atti fastidiosi, offensivi, intimidatori e minacciosi o coercitivi finalizzati a condizionare la decisione delle donne di interrompere la loro gravidanza, fino a trasformare il trattamento sanitario in un calvario e renderlo per troppe un trattamento inumano e degradante.
Criminalizzazione simbolica
Il precedente citato e l’iniziativa attuale della diocesi Ventimiglia- Sanremo mostra come la criminalizzazione dell’aborto non si giochi soltanto sul terreno penale: ha sempre attraversato lo spazio simbolico, il linguaggio, i corpi e la quotidianità delle donne. Anche dopo il superamento della punizione penale, la sanzione sociale è rimasta intatta, pronta a riemergere.
Come scrive Cecilia D’Elia (2019), l’aborto è stato storicamente un’esperienza femminile costante e differenziata: aborto naturale o spontaneo, aborto procurato, legale o illegale, sicuro o pericoloso; aborto praticato all’estero per chi poteva permetterselo, aborto affidato alla mammana per chi non aveva alternative.
«Un’esperienza nascosta sotto la cenere del privato più intimo, da tenere segreta, nella quale gli uomini erano certamente coinvolti, ma da cui spesso rimanevano appena sfiorati»: ricordare questo passato consente di comprendere la portata politica e culturale del cambiamento che si è prodotto quando, anche nell’ordinamento italiano, l’aborto è diventato oggetto di dibattito pubblico, di conflitto politico e di negoziazione legislativa. Da reato perseguito a carico delle donne e di coloro che le aiutavano clandestinamente a porre fine a una gravidanza a prestazione sanitaria formalmente consentita, ma incanalata in procedure rigide, come documenta la studiosa Elena Caruso, nonché ambigue e progressivamente ostacolate.
È proprio a partire dalla questione dell’aborto che prende avvio la pratica femminista di presenziare nelle aule giudiziarie. Tra i primi processi che videro la partecipazione radicale e rumorosa del movimento delle donne italiano vi fu, come ricostruisce Nadia Maria Filippini (2022), quello celebrato dinanzi al Tribunale di Padova nel 1973 a carico di Gigliola Pierobon, imputata per aver abortito da minorenne.
Non è un rito funebre pubblico
Oggi l’attacco rimane insidioso poiché non passa più, o non soltanto, attraverso la contrapposizione frontale alla legge 194, ma si infiltra negli interstizi: nei reparti ospedalieri, nei consultori, nelle procedure, nella comunicazione pubblica. Nella produzione sistematica di stigma quando l’aborto viene circondato da “stanze dell’ascolto” collocate dentro o accanto agli ospedali; quando associazioni anti-scelta entrano nei servizi pubblici; quando il personale sanitario non obiettore viene isolato o l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza viene rallentato, ostacolato o reso umiliante. Accade quando si tenta di ridefinire l’aborto come evento patologico o moralmente sospetto.
La decisione di interrompere una gravidanza non avviene nel vuoto, è sempre inscritta in situazioni materiali complesse che riguardano il desiderio, il rifiuto di una gravidanza non voluta, le condizioni di vita, le relazioni, il lavoro, la salute, la libertà personale. Sarebbe tuttavia ormai il caso anche di superare la necessità di ricorrere a narrazioni drammatiche per attribuire dignità a queste scelte: ridurle a un rito funebre pubblico significa, al contrario, negare simbolicamente e pubblicamente alle donne lo statuto di soggetti capaci di decidere del proprio corpo e della propria esistenza con responsabilità, alimentando due principali cornici argomentative, spesso intrecciate, attraverso cui viene messa in discussione la legge 194 del 1978, ossia da un lato la disinformazione scientifica e, dall’altro, le argomentazioni morali.
Sono le stesse linee discorsive che caratterizzano la mobilitazione anti-abortista a livello globale, orientata non tanto a una contestazione immediata del diritto positivo, quanto a ristabilire l’accettabilità sociale del divieto di aborto: l’obiettivo è agire sull’opinione pubblica per costruire un bacino concettuale che da un lato restringano l’interpretazione delle norme e, dall’altro, legittimino riforme legislative volte a ripristinare il divieto di aborto.
A questa strategia sono da ricondurre, ad esempio, i manifesti affissi periodicamente nelle città italiane che additano l’aborto come atto criminoso, utilizzando però il registro linguistico delle campagne contro la violenza maschile sulle donne o quello della tutela dei diritti delle persone con disabilità. Dal primo piano di un feto nel ventre materno, accompagnato dall’affermazione secondo cui l’aborto costituirebbe la «prima causa di femminicidio» in Italia, si è passati nel marzo 2023 alla diffusione dell’immagine di un bambino con sindrome di Down accompagnata dal monito «facciamoli nascere!».
Un compendio particolarmente chiaro delle linee argomentative impiegate tanto nel contenzioso quanto nelle iniziative di influenza sui decisori politici è offerto dalle mozioni discusse presso numerosi enti locali nel 2018, in occasione del quarantesimo anniversario della legge 194: a partire dalla mozione presentata a Verona il 4 ottobre 2018, poi replicata in altri contesti, si è affermata una narrazione ricorrente secondo cui la legge 194 avrebbe incentivato l’aborto come strumento contraccettivo, i gruppi femministi ostacolerebbero l’informazione su alternative all’aborto, l’obiezione di coscienza sarebbe compressa, i limiti temporali sistematicamente violati, e sarebbero stati praticati, dal 1978, circa sei milioni di aborti, con un aumento tra le minorenni e con una presunta omissione di dati sugli effetti dell’aborto sulla salute delle donne.
Tali affermazioni risultano smentite dai dati ufficiali. Il tasso di abortività in Italia è in costante diminuzione, con un calo complessivo superiore al settanta per cento rispetto al picco dei primi anni Ottanta. La riduzione interessa tutte le fasce di età e gli aborti tra le minorenni rappresentano una quota residuale del totale. Anche la cifra dei “sei milioni di bambini non nati” non trova riscontro nei dati statistici.
Controllo morale
In questo quadro, la tutela del concepito non è più posta, come un tempo, in opposizione diretta a quella delle donne, ma viene affiancata a una presunta tutela della salute femminile, fondata sull’asserita mancanza di informazioni sui rischi dell’aborto – dal cancro al seno all’infertilità, dal dolore post-aborto a specifiche sindromi psicologiche – senza alcun fondamento scientifico.
Negli anni la giurisdizione ha svolto una funzione di contenimento rispetto ai tentativi di interpretare la legge 194 in senso sempre più restrittivo, resta tuttavia aperta la questione della tenuta, nel lungo periodo, di questa funzione di freno. Le principali cornici discorsive descritte mirano a sradicare l’accettabilità sociale all’aborto. Ne deriva l’urgenza di una ridefinizione del discorso pubblico, che superi una difesa meramente conservativa della legge 194 e ne assuma criticamente anche i limiti che si rinvengono nella domanda dirompente che poneva Carla Lonzi: «Per il piacere di chi sono rimasta incinta?».
Una domanda che sposta l’attenzione dal singolo atto alla struttura dei rapporti sociali che lo precedono. Se la sessualità continua a essere organizzata secondo un modello patriarcale in cui il desiderio maschile è norma e misura, la stigmatizzazione sociale delle donne che abortiscono non è una contraddizione del sistema, ma una sua componente funzionale: da un lato l’aborto è ammesso come extrema ratio, dall’altro le donne che vi ricorrono vengono colpite simbolicamente attraverso la colpevolizzazione e il controllo morale dei loro corpi.
Le campane di Sanremo non sono dunque una stravaganza locale né un’iniziativa casuale, dal momento che si colloca subito dopo l’approvazione da parte del Parlamento europeo della risoluzione promossa da My Voice, My Choice che promuove il riconoscimento dell’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza come diritto fondamentale, parte integrante della tutela della salute e dell’autodeterminazione delle donne, impegnando gli stati membri a garantirne l’effettiva esigibilità senza stigma né ostacoli.
Il suono martellante delle campane ricordano la fermezza nel perseguire l’obiettivo di rendere socialmente accettabile la stigmatizzazione delle donne e legittimano moralmente l’ostacolo all’accesso in Italia alle prestazioni sanitarie poste a presidio della salute sessuale e riproduttiva.
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