Non c’è nulla di più scandaloso, in un paese che si dice civile, di ciò che accade nel silenzio ovattato dei reparti ospedalieri, dove il diritto all’aborto è garantito da una legge dello Stato ma negato da chi, quello stato, dovrebbe incarnarlo. Federica di Martino – psicoterapeuta, attivista, e fondatrice della pagina Ivg, ho abortito e sto benissimo – non è una che usa mezzi termini. Parla di cose che bruciano, con la voce ferma di chi ha visto abbastanza da non avere più paura. In questa intervista racconta ciò che non si vuole vedere: la solitudine, la violenza, l’ipocrisia. E la possibilità, concreta, di stare bene. Anche dopo un aborto. Anzi: proprio perché lo si è scelto.

Federica di Martino, puoi spiegarci come è nata l’idea di creare la pagina “Ivg, ho abortito e sto benissimo”?

La pagina nasce nel 2018, grazie a un'idea mia e di Elisabetta Canitano, ginecologa e Presidente di Vita di Donna Onlus. Volevamo provare a portare, già a partire dal nome, una narrazione altra che fosse di rottura con il vecchio adagio che vedeva l'aborto unicamente come esperienza traumatica e dolorosa, portata avanti come un mantra anche da chi, invece, quelle istanze le sosteneva. Riappropriarsi dell'esperienza abortiva, declinandola in prima persona, e dunque non delegandola (e relegandola) a chi voleva parlare di noi, senza però averci mai parlato, con noi, dicendo che non solo era possibile viverla con serenità, ma addirittura stare benissimo, sono state il vero e proprio detonatore di un movimento di cambiamento e visibilizzazione.

Le donne e le persone che hanno abortito hanno cominciato a scriverci per raccontarci le proprie storie, quello che avevano vissuto, così come delle innumerevoli violenze mediche e sanitarie che avevano ricevuto nei luoghi della salute, e quell'esperienza, così lontana dai corpi e dai vissuti delle donne, ha cominciato a incarnarsi e a restituirci due cose fondamentali: esistiamo, esistono le nostre esperienze abortive. E soprattutto esistiamo come interlocutrici politiche. Non abbiamo bisogno di chi ci difende o parla al nostro posto, sappiamo farlo da sole e sappiamo occupare gli spazi pubblici della rivendicazione dei nostri diritti.

Lo sguardo sull’aborto sembra essere uno solo, negativo e non soltanto da parte degli uomini.

La retorica dominante traduce l'aborto come esperienza traumatica («è un lutto segreto, la madre che nega sé stessa», «è il più paradossale dei suicidi», citando ad esempio le parole di Barbara Alberti su l'Espresso in un articolo del 2022, ma ce ne sarebbero tante), di dolore e vergogna, utilizzate come strumento politico di colpevolizzazione volto a silenziare i vissuti delle persone che scelgono di abortire. L'aborto in Italia è ancora oggi un tabù.

E cosa fa la piattaforma di concreto?

Si occupa anche di accompagnamenti in tutta Italia per chi vuole abortire ma non sa nemmeno da dove partire o come muoversi, divulgazione e corrette informazioni, supporto economico all'acquisto dei contraccettivi (i cui costi, a parte pochissime regioni per fasce d'età e di reddito, hanno dei costi elevati che ne limitano l'accesso) e sostegno al test di gravidanza, che molte volte viene rimandato proprio perché si è sole, si ha paura di un eventuale risultato positivo rispetto a una gravidanza che risulterebbe inadeguata, e non si hanno le informazioni corrette che permettano loro di scegliere e muoversi senza che diventi tutto una corsa a ostacoli. Insomma, "Ivg ho abortito e sto benissimo”, così come tante reti territoriali di mutualismo dal basso che operano in tutta Italia si occupa, banalmente, ma anche drammaticamente, di tutto quello che spetterebbero allo stato e alle istituzioni, che all'accorato appello di una presenza concreta sanno dare solo una risposta: assente.

Quali sono le esperienze che arrivano dall’Italia?

Alcune raccontano di esperienze pregresse, altre invece le ho accompagnate personalmente in questi anni, e la scelta di condividere il proprio vissuto nasce proprio dal desiderio di offrire, attraverso quel racconto, un sostegno e supporto ad altre donne che stanno per affrontare questa esperienza. Tantissime ragazze mi scrivono, la sera prima di avviare la procedura, che passano il tempo a rileggere le esperienze di chi ci ha scritto per riuscire a tranquillizzarsi. Sebbene in molti casi non parliamo di persone con una coscienza politica strutturata o esperienze di attivismo alle spalle, riconosco nell'atto di condividere la propria esperienza un vero e proprio atto politico di visibilizzazione e mutualismo.

C’è una storia che ricordi particolarmente?

La maggior parte delle storie che ricordo, sono spesso colorate dall'emozione di continuare a mantenere legami anche dopo i loro aborti. Continuiamo a sentirci e sapere che quel tipo di accompagnamento, scevro da giudizi e pieni di sostegno, hanno permesso loro di riprendere in mano la propria vita in maniera libera serena, è la soddisfazione più grande che mi porto dietro.

Non mancano i ricordi amari, come aver assistito a racconti di violenze innumerevoli: donne costrette ad ascoltare il battito fetale, e più chiedevano di smetterla più invece alzavano il volume, o persone intercettati nei reparti da persone in camice bianco che in realtà erano volontarie di gruppi e movimenti antiabortisti che cercavano di far desistere le donne dalle loro scelte, o di un prete, che entrava nelle stanze in cui c'erano le donne che dovevano abortire per chiedere loro di recitare insieme l'atto di dolore prima dell'intervento. Ma di una ho un ricordo particolare, ed è una donna della provincia di Napoli, paziente oncologica in stato avanzato, che scopre una gravidanza che però non voleva portare avanti. Accanto a lei ha trovato solo una famiglia ostile e personale antiabortista. Abbiamo provato ad assisterla, non riusciva a muoversi e abbiamo provveduto a inviarle un infermiere a domicilio per farle fare gli esami del sangue. Le pressioni continuavano, e lei a un certo punto è sparita. Non so che fine abbia fatto, non so se abbia portato avanti quella gravidanza, ma quello che è certo è che ha subito una violenza disumana che non si è fermata di fronte a niente, nemmeno davanti al dolore di una malattia.

Giorgia Meloni ha sempre detto che non avrebbe mai toccato la legge 194. E infatti non lo ha fatto.

Non lo ha fatto perché le è semplicemente bastato svuotarla dall'interno. Ha dato un colpo leggerissimo a un castello di carta che è crollato rovinosamente, a scapito della salute e del benessere di migliaia di donne e soggettività. Parliamo di una legge che regola l'aborto ma che parte dall'assunzione della maternità come principio fondante del nostro paese, assumendo l'aborto non come scelta perché non si vuole abortire ma perché non si può farlo. Questo ha permesso l'applicazione della prima parte della 194, che è quella che prevede l'utilizzo di coadiuvo di gruppi e associazioni, e che nei fatti si è tradotto in un subdolo emendamento ai fondi del Pnrr per l'ingresso di questi gruppi nei luoghi della salute pubblica, che continua ad essere smantellata da anni, svenduta ai migliori offerenti a favore della privatizzazione dei servizi. Parliamo del “Fondo Vita Nascente” in regione Piemonte, promossa dall'ass. Maurizio Marrone, che ha stanziato più di 2 milioni di euro per l'ingresso anche di gruppi e associazioni di marca antiabortiste, in convenzione con l'Asl.

Quali sono le sfide maggiori che le persone incontrano oggi quando decidono di interrompere una gravidanza?

Dipende dalle regioni in cui vivono. La regionalizzazione della sanità, sebbene l'aborto rientri nei Lea (livelli essenziali di assistenza) e nonostante le linee guida ministeriali è un tema molto critico. A seconda della regione in cui si nasce, della città in cui si vive (vedi le difficoltà di accesso per chi vive nelle periferie ed è costretta a spostarsi) e da lì dell'ospedale o consultorio in cui capiti o del medico con cui ti interfacci.

In che senso?

I problemi maggiori riguardano la disinformazione sulle procedure necessarie per accedere all'iter abortivo. I siti ministeriali non sono chiari e aggiornati, alcuni siti delle aziende ospedaliere non sono aggiornati (vedi il sito del reparto di ginecologia dell'ospedale di Acireale che è fermo al 2020, la pratica dell'Ivg non è nemmeno inserita e le persone non sanno nemmeno di poter andare lì) e le informazioni non raggiungono le categorie marginalizzate, che sono quelle che hanno anche maggiore necessità. Ad esempio, quante persone con background migratorio senza permesso di soggiorno sanno di poter abortire senza ricevere nessuna segnalazione alla questura?

C’è poi l’obiezione di coscienza, giusto?

È il vero grande male di questo paese. Con medie europee che si aggirano al 9 per cento (vedi la Francia), noi parliamo di dati, aggiornati al 2022, di una media nazionale che arriva quasi al 70 per cento, con ospedali e presidi che raggiungono il 100 per cento, andando nei fatti contro la stessa legge 194/78 e costringendo migliaia di donne a migrazioni intra ed extra regionali, quando secondo la stessa legge la mobilità dovrebbe essere del personale, e non di chi deve abortire. In molte regioni e province l'accesso è al solo aborto chirurgico, e non viene erogato il servizio farmacologico. Questo costringe le donne a migrazioni, oppure a non avere libertà di scelta nella pratica abortiva, nonché confrontarsi con le infinite liste di attesa a causa del bassissimo personale non obiettore, che in più casi le costringe comunque a spostarsi perché i tempi di attesa le porterebbero a superare il numero di settimane consentite dalla legge.

Di recente sei stata ospite a Muschio Selvaggio per un confronto con Pro Vita e hai ricevuto subito insulti e minacce sui social ti preoccupa?

Sono anni che ricevo critiche violente, sia a causa del mio attivismo, sia per il tema che porto avanti e soprattutto perché ho scelto di metterci la faccia, in quanto donna che ha abortito e in quanto professionista della salute in quanto psicoterapeuta. Personalmente gli attacchi violenti ricevuti a seguito della mia partecipazione al podcast rappresentano soltanto lo specchio di una ideologia violenta, camuffata placidamente, con toni affettati e linguaggi antiscientifici, volti a impietosire l'interlocutore e alimentare lo stigma e la colpevolizzazione, quindi sono solo che contenta che escano allo scoperto per quello che sono. Queste frasi me le sento dire da anni, e mutuando la buona Carla Lonzi, abbiamo sputato su Hegel, figuriamoci se mi impressiona sputare su di loro e sui loro modi violenti.

Come è stato il tuo confronto con il gruppo anti scelta?

Non c'è un confronto, non sono miei interlocutori. Chiunque neghi i diritti fondamentali delle persone non sono miei interlocutori. La domanda vera è perché lo diventino per i vari programmi televisivi, che li elevano ad interlocutori contrapponendo dall'altra parte il vuoto siderale di uno stato assente e una politica che, nella maggior parte dei casi, non sa nemmeno di cosa si stia parlando e di cosa accade, nel paese vero.

Come vedi l’attivismo su questo tema in Italia? Mi spiego esiste o è solo perfomativo?

Plurale e molteplice. Parliamo di realtà e associazioni che operano sul territorio nazionale, come Liaga, Obiezione Respinta, Associazione Luca Coscioni, Rete Pro-Choice, i numerosi nodi territoriali di Non Una di Meno, e parliamo di tutte le realtà di mutualismo dal basso che quotidianamente operano sui territori per portare avanti azioni e istanze che sopperiscano alle mancanze dello Stato. Ho sempre scelto di mantenere Ivg ho abortito e sto benissimo uno spazio libero da commistioni con aziende, sponsorizzazioni e collaborazioni. L'affitto lo pago come tutte ma ho scelto di farlo fuori da quello spazio, con i miei lavori, proprio perché non ho nessuno a cui dover rendere conto e soprattutto le persone delle comunità che seguono quello spazio restano persone, e non sono merce da piegare ai numeri dell'engagement per auspicarmi qualche collaborazione con aziende che strumentalizzano il femminismo per farne pink washing. «Siamo una grande famiglia», «me lo avete chiesto in tantissime», «mi sono commossa tanto preparando questo reel», «grazie, siete in tantissimi», sono quelle frasi che da anni ci accompagnano, e che sono diventate quasi una macchietta, per mercificare chi fruisce di quei canali, fidelizzarli e averne un ritorno personale. Ma la vita delle persone non è merce.

C’è una grande discussione sul termine “persone che abortiscono” al posto di donne. Tu come ti posizioni?

L'aborto investe e riguarda anche le persone trans* e non binarie, e non possiamo far finta che non sia così. Non possiamo nemmeno più permetterci, come abbiamo fatto in passato, di sacrificare sull'altare del compromesso le vite delle persone se questo significa lasciare qualcuno indietro. Si è strumentalizzato il fatto che parlare di aborto per le libere soggettività significasse eliminare le donne. Nei fatti, non mi sembra che nessuno lo abbia fatto, tranne chi continua ad utilizzare strumentalmente la vita delle libere soggettività come grimaldello di politiche transfobiche, magari ricordandoci di quanto hanno lottato negli anni '70 per il diritto d'aborto. Parlano di «femminismo della differenza» per non parlare di quello che sono le istanze transfobiche di cui si fanno portatrici, non rendendo nemmeno omaggio a una storia del movimento femminista a cui molto dobbiamo, ma che oggi purtroppo vediamo sempre più svenduto alle ideologie, che non a caso nelle destre trovano una casa e un accoglimento.

© Riproduzione riservata