Ogni tanto cambiare il lessico con cui chiamiamo le cose aiuta a vederle con prospettive differenti. Così in tempi in cui si parla quotidianamente della contrapposizione tra “sovranismo” e “globalismo”, abbiamo provato a dare a questi termini una diversa connotazione.

Chissà che questo esercizio non ci permetta di comprendere meglio le differenze tra due schieramenti divisi da una trincea di incomunicabilità sempre più profonda, dove oggi, più che le posizioni, contano le demarcazioni.

Cominciamo sostituendo a queste due parole due “culture” che caratterizzano la formazione, l’identità e il ruolo dello stato-nazione. Da una parte troviamo la “cultura dell’individualità”, dall’altra la “cultura della comunità”.

L’immaginario collettivo

Dobbiamo ora considerare che una nazione nasce come la manifestazione più evidente proprio della “cultura della comunità,” ovvero di quell’immaginario collettivo scaturito dal confronto delle forze che ne auspicavano la formazione.

Per l’Italia questo processo parte dal Risorgimento e trova la sua più alta forma nella Costituzione repubblicana. Lì si è focalizzata la visione di quelli che chiamiamo a torto o ragione padri della patria.

Padri che avevano ciascuno le proprie ragioni per volere quell’Italia: dagli afflati romantici dei carbonari, al pragmatismo di chi ha finanziato la spedizione dei Mille, fino all’atlantismo democristiano o l’idealismo che scaturiva dalla Resistenza. Ma l’immaginario non si chiama collettivo mica per nulla: è costituito da prospettive, aspirazioni, sforzi capaci di diventare convergenti.

Anche nel 1947 qualcuno avrebbe preferito un’Italia diversa: monarchica, post-fascista, internazionalista… La nazione che ne è scaturita, però, è stata accettata da tutti, proprio perché l’Assemblea costituente da cui è nata è stata il culmine di una cultura politica frutto di una visione condivisa.

La cultura individualista

Poi sono subentrati fenomeni su cui abbiamo ragionato a lungo in queste pagine: la crisi delle ideologie, il dogmatismo del modello di capitalismo liberale uscito vittorioso dalla guerra fredda, l’affermarsi della convinzione che tecnologia ed economia bastassero da sole a darci prosperità. Chi ha ancora bisogno di un immaginario collettivo, quando può sentirsi appagato da un click sul suo home banking?

La cultura dell’individualità che ne è scaturita è esattamente il contrario di immaginare qualcosa insieme. Come, ad esempio, creare un’Europa realmente comune in cui le identità potessero dialogare.

Aspettiamo dal 2003 una costituzione continentale e invece ad avanzare è stata la visione di Viktor Orbán in cui ogni nazione è uno stato-individuo distinto.

L’Onu ha smesso da tempo di essere portavoce dell’immaginario collettivo globale, trasformando le nazioni in semplici segnapunti colorati del nuovo scacchiere mondiale.

Una cultura che identifica lo sviluppo solo in termini di benefici individuali facilita, a sua volta, la creazione di uno stato-individuale.

Assistiamo alla nascita di un “io” collettivo, dove la progettualità non è più generata da una visione condivisa, ma dalle divergenti necessità dei singoli.

Ne consegue che l’unico possibile governo di questa nazione è quello che rivendica la propria sovranità (e no, non stiamo parlando di quella alimentare).

Non spetta a noi giudicare se questo sia un bene o male, ma certo si sente la necessità di rimettere in moto quei processi che porterebbero a creare un nuovo immaginario collettivo. Processi che non devono nascere sulla spinta dell’urgenza, ma della necessità di pianificare un futuro.

Sicuramente sarebbe un modo per portare la cultura politica su un piano più alto: quello che ha permesso ai grandi sogni di questa nazione di diventare realtà.

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