La tv ad accesso libero di Rai1, Canale5 e compagnia minore, passata l’onda della reclusione casalinga del 2020, hanno trovato nell’ultimo autunno (dati Studio Frasi) un pubblico ristretto del 4 per cento. Uno snellimento che se fosse nel campo del vestiario segnalerebbe lo scalare di una taglia. I dati di primavera ci diranno se il dimagramento è destinato a continuare, anche considerando che diverse sono le vie che allontanano uno spettatore dalla televisione.

I motivi delle variazioni d’ascolto

Per prima l’esistenza di un’offerta a pagamento che tra Sky, Netflix e Prime aggancia i suoi clienti a racconti seriali, sfide sportive e documentari. Accade così che milioni di persone diano una sbirciata ai titoli dei Tg, ammesso che le anticipazioni social non abbiano già provveduto alla bisogna, e poi si tuffino in tutt’altre storie.

Il secondo fattore di distrazione dalla tv domestica è costituito, non da oggi, dalle cifre dell’economia. Se i soldi girano è automatico che molti li spendano per la serata in pizzeria piuttosto che per starsene rinserrati in casa. Se, come pare, l’autunno del 2021 ha visto la ripresa decollare, le cifre dell’auditel ne danno la conferma.

Il terzo fattore, più lento nell’agire, è la “qualità” di ciò che vien trasmesso dalla tv tradizionale. Al di là dei punteggi della critica televisiva, la tv di regola viene vista perché esiste e non grazie a quello che trasmette, così come la luce in casa viene accesa quand’è buio e non per l’urgenza di qualcosa di preciso da osservare.

Tuttavia è difficile negare che i palinsesti di Rai, di Mediaset e degli altri siano ormai una somma di titoli stantii che contano su cerchie di fedeli destinate ad assottigliarsi. Da questo punto di vista il problema della qualità pare gonfio e alle soglie d’uno scoppio.

Format ripetitivi

Se cerchiamo la ragione di tanta implacabile ripetitività a base di format annosi raccattati nel mercato dobbiamo guardare non ai singoli titoli e alle inerzie di chi ne cava uno stipendio, ma alla struttura stessa del sistema televisivo “tradizionale”.

Da tempo immemorabile (che coincide con l’èra Berlusconi) quello italiano si basa su un eccesso, divenuto ormai pulviscolo, di canali che hanno svolto, e ancora tentano di svolgere, il compito di saturare i principali target del mercato dell’ascolto: casalinghe, disoccupati e anziani che usano la tv per compagnia (fino ed oltre le sei ore al giorno) sovrapopolando gli “spettatori medi” e la guerra degli share.

A questi si aggiunge, solo quando è sera, il resto del paese, ma senza incidere davvero sui canoni di gradimento dei programmi e dei canali. È interessante che da qualche mese proprio le legioni di questi pubblici fedeli mostrino sostanziose diserzioni, segnalando l’usura dell’abitudine a tante micro offerte tutte uguali. La voglia di novità, in sostanza, sembra farsi sotto, anche nei confronti del video domestico, il più inerziale dei consumi.

Ma se è ovvio che la qualità di un’offerta sia funzione inversa della dispersione della stessa è anche scontato che il pulviscolo resista a farsi condensare perché dietro ogni frammento c’è un autoralità minore che tira a campare, intrecciata all’astuto fornitore estero di creatività surgelata dentro un format col bollino del mercato.

Serve lo spariglio strutturale

La morale del ragionamento è che la tv tradizionale italiana, a partire da Rai e Mediaset, sia destinata a contemplare il suo declino a meno che non sparigli il gioco attraverso una ristrutturazione radicale basata sulla conquista dell’economia di scala. Mediaset ci punta, com’è chiaro, facendosi europea e trasferendo in Olanda la sede societaria. Ma ancora ci sfugge cosa potrà davvero combinare, perché europea è già l’origine del grosso di quello che trasmette e se volesse invece trasformarsi essa stessa in produttore dovrebbe non cambiare casa ma dare un taglio alla sua congerie di canali.

La Rai dal canto proprio non pare avere altre strade se non condensarsi, e rapidamente, per aumentare in rilevanza e farsi irrinunciabile sotto due profili: l’esattezza e approfondimento dell’informazione, rispetto al continuare a somministrare le braci spente delle multiple testate; lo scavo e l’uso dell’epos territoriale e nazionale come fonte di autocoscienza e di spettacolo, non solo nella fiction – dove spinta dalla concorrenza qualcosa già si vede – ma nella sterminata prateria che a partire dalle ore del mattino si stende fino a sera.

Se a Cavallo e Biscione riuscisse tutto questo, sarebbe garantita a entrambi la capacità di cavarsela, spettatore più, spettatore meno, nel mondo delle piattaforme che li incalzano e dei tanti nuovi modi che s’annunciano nel campo delle news e dello spasso. In caso contrario lo spettacolo sarà comunque assicurato, ma sarà quello del tramonto.

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