10 marzo 1914, Londra. Si avvicina la primavera, il cielo è immacolato. Una donna con una mannaia da macellaio nascosta nel vestito entra alla National Gallery. Passeggia indisturbata tra le sale; è abituata a non essere notata, ad apparire agli uomini minacciosa come una mosca. Si ferma davanti a un’altra donna che le rivolge la schiena, impegnata a specchiarsi, ignara di tutto. Estrae la mannaia e attacca infierendo cinque volte sulla figura nuda, bella come deve esserlo una dea.

La donna ferita è Venere, ritratta da Velázquez nel 1647 nel dipinto noto come Venere Rokeby. La donna con la mannaia è Mary Richardson, ex studentessa d’arte, suffragetta, che dichiara: «Ho provato a distruggere il quadro della donna più bella della storia mitologica per protestare contro il governo che sta distruggendo Mrs Pankhurst, la personalità più bella della storia moderna. La giustizia è un elemento della bellezza come il colore e le linee su una tela».

14 ottobre 2022, Londra. È autunno, ma il clima è abbastanza mite per indossare le maniche corte. Due ragazze con delle tolle di zuppa al pomodoro nascoste negli zaini entrano alla National Gallery. Passeggiano tra le sale, si fermano davanti a un vaso di girasoli. Estraggono la zuppa e la gettano contro i fiori. Il vaso fa parte di una delle serie più note di Van Ghogh: I girasoli. Le ragazze con le latte di pomodoro sono attiviste del gruppo Just Stop Oil. Solo la cornice viene rovinata, il quadro è protetto dal vetro e le “inzuppatrici” ne sono consapevoli. Con della colla a presa rapida si attaccano alla parete, dichiarano: «Cos’ha più valore: l’arte o la vita? Vale più del cibo? Più della giustizia? Siete più preoccupati di proteggere un dipinto o di proteggere il nostro pianeta e la gente che ci vive?».

La ciclicità della storia

La Venere Rokeby di Diego Velázquez (Wikipedia)

«La storia si ripete» è una frase abusata. La conseguenza che si sottovaluta è che la storia non l’abbiamo solo alle spalle, ma ne siamo immersi. La mano che lacera la Venere e che inzuppa i Girasoli compie un unico gesto che, attraverso il passato, raggiunge il presente.

Mary Richardson visse in un’Inghilterra che aveva imparato a disprezzare e sminuire come «capricci di qualche zitella», i gesti dimostrativi di chi lottava per conquistare i propri diritti.

Il movimento delle suffragette era nato nel Regno Unito nel 1869, ma nel 1903 aveva acquistato nuovo vigore grazie alla fondazione della Wspu, Women’s Social and Politican Union, da parte di Emmeline Pankhurst. L’obiettivo: far ottenere alle donne il diritto di voto. Lo slogan: «Deeds not words» (tradotto, «Fatti non parole»). I primi atti: marce affollatissime e pacifiche nelle quali si erano radunate migliaia di persone a dimostrare che il movimento non era solo formato da qualche arida zitella.

Dal pacifismo all’azione

Emmeline Pankhurst arrestata davanti a Buckingham Palace (Wikipedia)

Ma le suffragette erano state ignorate, sbeffeggiate, arrestate. Anni di ossequiose richieste al parlamento non avevano ottenuto risultati. Si risolsero, dunque, a proteste più viscerali e iconoclaste. Spaccarono i vetri alle finestre del primo ministro, mandarono in frantumi vetrine, incendiarono cassette delle lettere, sfondarono la lunetta della porta di Winston Churchill e, tra le altre cose, fecero esplodere una bomba nella residenza estiva in costruzione di Llyod George. Si assicurarono di non fare vittime. Consapevoli delle finalità dei propri gesti, sapevano che il sangue non è il combustibile di una lotta per la giustizia. Appiccavano il fuoco a edifici abbandonati, invadevano i campi del Golf Royal e sostituivano le bandierine delle buche con i vessilli viola, bianchi e verdi della Wspu.

Queste incursioni fecero emergere ostilità sempre più forti, i giornali diffondevano appelli a non interferire nel passatempo che aiutava gli stanchi politici a ritemprarsi per pensare lucidamente. Le suffragette avevano tutta l’intenzione di disturbare tale passatempo fino a quando i politici non avessero pensato lucidamente alla loro causa. Quando venivano arrestate non erano trattate da prigioniere politiche, se tentavano lo sciopero della fame subivano l’alimentazione forzata. Emmeline Pankhurst spiegava: «dovevamo rovinare i passatempi degli inglesi, ledere gli affari, distruggere proprietà private di valore, demoralizzare la società, deturpare le chiese, sconvolgere l’ordinaria condotta di vita». 

La disobbedienza che stravolge la normalità

La ragazza con l'orecchino di perla di Jan Vermeer (AP Photo/Peter Dejong)

Oggi ben pochi giudicherebbero sterile e capricciosa la disobbedienza civile delle suffragette. Le loro azioni, all’epoca considerate ridicole, erano volte a sconvolgere la normalità per scuotere il pensiero. Entravano nel quotidiano e rompevano l’illusione rassicurante della consuetudine.

È questo che hanno fatto le ragazze di Just Stop Oil con le loro zuppe. Come le suffragette, non sono sole. Un gesto simile è stato compiuto verso La ragazza con l’orecchino di perla di Vermeer al museo Mauritshuis di L’Aja e verso Il Seminatore di Van Gogh esposto a Palazzo Bonaparte a Roma.

Non possiamo prenderci il lusso di accusare le ragazze che hanno “inzuppatoI girasoli di vandalismo. I vandali danneggiano e scappano, fanno perdere le loro tracce, dietro i loro atti non c’è che il vuoto brivido della distruzione. Queste ragazze rimangono. Si incollano. È una firma, un’assunzione di responsabilità. Abbracciano le conseguenze del gesto. La ragazza che annuncia le ragioni della protesta trema, ma ha il mento alto. Ha paura, ma sa che è più importante alzare la voce e farsi sentire.

Ci si aspetta che gli attivisti del clima colpiscano le infrastrutture fossili, le aziende di fast fashion, gli oleodotti. Rientra nell’equilibrio delle cose, conforta l’acquiescenza che ci porta a ripeterci nei confronti della crisi climatica: «Non mi riguarda, non impatta la mia vita, le cose a cui tengo». 

Una battaglia che ci riguarda

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Anche la mia prima reazione di fronte al video dell’inzuppamento è stata di distacco, sconcerto verso chi colpisce un’opera destinata all’ammirazione di tutti, non alla rabbia di qualche individuo isolato che vuole strumentalizzarla. Poi mi sono data il tempo di riflettere: l’inzuppamento de I girasoli è un gesto che sposta il focus, che mi costringe a guardare, a prendere coscienza di una lotta necessaria per il semplice fatto che, se continuerà a venire ignorata, le conseguenze impatteranno sulla mia vita in modi a cui non potrò rispondere con il semplice disprezzo. Quella per il clima non è una battaglia che si può combattere da soli. Sono i governi che devono essere scossi per innescare un’azione collettiva. Ma per scuotere i governi occorre prima scuotere la gente.

Nell’introduzione di Capitalist Realism, Mark Fisher afferma che è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo e cita una scena chiave del film di Alfonso Cuaròn, Children of Men. In una società al collasso in cui da generazioni non nascono nuove vite, il protagonista visita un palazzo del governo in cui le élite conservano le più importanti opere d’arte e chiede: «Che senso ha tutto questo se non rimarrà più nessuno per vederlo?». La risposta: «Cerco di non pensarci». 

Se continueremo a ignorare il problema, se i governi persisteranno a sottovalutare i danni provocati dal cambiamento climatico, a nascondersi dietro fragili scuse, il concetto stesso di arte rischia di diventare futile: non un bene prezioso destinato a tutti, ma un privilegio per pochi individui, sempre più isolati dalla realtà.

Chi potrà ammirare un quadro in un pianeta che brucia? Chi potrà leggere un libro o andare a teatro, o guardare una serie su Netflix? Come potremmo ammirare l’arte o difenderla se saremo troppo impegnati a cercare di fuggire dalle fiamme? Gran parte degli inglesi che lessero i giornali la mattina seguente al gesto di Mary Richardson dovevano essere convinti che quella fosse l’azione di una pazza che sarebbe stata presto dimenticata, che la battaglia per cui lei e le sue compagne lottavano fosse vana.

«È così che va il mondo»; ecco un’altra frase che abbiamo sentito dire troppo spesso. La storia ha dimostrato che quegli inglesi si sbagliavano. Quale sarà il verdetto su di noi?

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