«E bomba o non bomba noi arriveremo a Roma, malgrado voi» cantava Antonello Venditti in un 1978 che aveva visto non poche bombe e piombo piovere per le strade delle città italiane ed europee. La bomba lungamente simbolo della rivolta anarchica diviene a partire dal secondo dopoguerra uno strumento totalmente istituzionalizzato. Là dove la rivolta va sedata, la bomba – a partire da quelle che verranno definite stragi di stato – diviene il sistema più rapido per riportare ordine e disciplina nella società.

Un passaggio che ha il suo fulcro nella seconda guerra mondiale con il lancio nel 1945, il 6 e il 9 agosto, di due bombe atomiche sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki. Una strage per il Giappone che vedrà morire oltre duecentomila civili, una necessità invece per il governo degli Stati Uniti utile a chiudere definitivamente il conflitto nel Pacifico.

Da quel giorno la bomba atomica e conseguentemente possederla, diviene uno strumento di assoluta dissuasione ad aprire qualunque ipotetico conflitto. Un congelamento che darà corpo a una Guerra Fredda apparentemente meno cruenta, ma non meno complessa e delicata dentro alla quale le due grandi potenze, Stati Uniti e Unione Sovietica si sfideranno oltre che su campi esterni ai loro territori, armandosi e inseguendosi l’un l’altra in una folle escalation armata che si fermerà solo alla metà degli anni Ottanta con l’apertura indotta dalla politica della perestroika favorita da Michail Gorbačëv e dalla sconfitta del sistema sovietico che si paleserà nei primi anni Novanta.

I nuovi scenari di crisi

Un equilibrio di sistema estremamente fragile, ma capace di mantenere la pace seppur con un’allerta pressoché perenne, che è stato definitivamente spazzato via in maniera palese con l’aggressione russa in Ucraina. Il cambiamento degli equilibri geopolitici e lo spostamento degli interessi americani ha infatti indotto Vladimir Putin che fosse possibile riaprire – senza sostanzialmente colpo ferire – una campagna di stampo imperialista che riassicurasse un ruolo centrale alla Russia nella regione.

Questo perché dopo l’occupazione della Crimea nel 2014, Barack Obama espresse esplicitamente la volontà di non sostenere in alcun modo il governo ucraino e la sua difesa, sarà infatti solo Donald Trump nel suo primo mandato a mandare i primi sostegni e armamenti all’Ucraina, nonostante le molte idiosincrasie che da sempre l’attuale presidente americano nutre verso quel paese, a partire dagli opachi affari svolti da Hunter Biden, figlio dell’odiato Joe Biden.

La risposta compatta offerta dall’Europa e dagli Stati Uniti (guidati da Joe Biden) ha infatti sorpreso Putin stesso, generando però più di una domanda e non qualche perplessità sulla possibilità di una reazione atomica da parte della Russia. Un tema che ha dominato più che altro i media europei e che invece come possibile pericolo è sempre stato sostanzialmente smentito dal governo americano. Tuttavia queste smentite non hanno impedito che i paesi Nato si muovessero sostenendo l’Ucraina con moderazione (spesso eccessiva) e con una timidezza sicuramente non casuale.

Da un punto di vista politico sarebbe infatti assolutamente insensato l’uso dell’atomica da parte russa anche perché i sistemi sono sostanzialmente tracciati dagli Stati Uniti e perché banalmente non porterebbe a nessun tipo di vittoria, ma a una tragedia globale. In sostanza non condurrebbe a nessun vantaggio per la Russia e accelererebbe solo la caduta del regime putiniano. Detto questo è evidente che confrontarsi con una potenza nucleare non è come confrontarsi con un regime per quanto violento e cruento da Stato delle banane.

Dal deterrente alla miccia dei conflitti

Tutto ciò capovolge oggi i presupposti che avevano definito più che l’uso la possessione della bomba atomica dal 1945. Ora infatti il suo possesso non evita il conflitto, ma al contrario lo permette e rendendolo successivamente di difficile risoluzione. A comprendere meglio la situazione attuale arriva così in soccorso un raffinato e puntuale saggio del grande storico inglese Richard Overy, membro della Royal Historical Society e della British Academy, ed esperto della Seconda guerra mondiale che con Pioggia di distruzione (Einaudi, traduzione di Laura Bernaschi) prende proprio in analisi le condizioni politiche e il contesto bellico che determinarono la scelta americana.

Non è infatti scontato dire come si è sempre detto retoricamente che la bomba atomica permise o facilitò la resa del Giappone, perché proprio la dinamica e il sentimento di resa non potevano appartenere a un paese come il Giappone la cui logica era totalmente diversa da quella espressa dagli Stati Uniti a partire da un rapporto divinatorio con l’Imperatore Hirohito.

Sarà Barack Obama il primo presidente americano a visitare il memoriale di Hiroshima e pur non chiedendo alcuna scusa dichiarò la necessità di una politica capace di superare i conflitti armati e in particolare la nuova corsa agli armamenti nucleari. Una dichiarazione che sembrò più che altro un tentativo di ricucire con una parte di mondo che stava vivendo una nuova centralità e che necessitava di uno sguardo più attento e relazionale da parte degli Stati Uniti. Prima di lui solo Bill Clinton dichiarò la necessità di porre delle scuse verso il dolore causato al popolo giapponese, ma poco dopo lo stesso presidente si smentì ribadendo la necessità degli Stati Uniti di agire nel 1945 lanciando entrambe le bome atomiche non solo per concludere il conflitto ma anche per salvare vite umane americane che da troppo tempo erano coinvolte in una guerra che ormai aveva assunto la forma di uno stillicidio e sembrava non aver fine.

Overy dimostra però come nel mondo giapponese qualcosa si stesse in realtà muovendo anche a causa dei cinici bombardamenti incendiari americani che definirono in maniera sprezzante il Giappone come un insieme di città di carta.

Lo stesso Hirohito aveva intrapreso un percorso di ripensamento, ma i tempi di quel mondo non si adattavano a quello della modernità americana e anche della necessità di chiudere un conflitto evidentemente già vinto, ma ancora in corso a causa dell’ostinazione fideistica dei soldati giapponesi che erano pronti a sacrificare la propria vita per l’imperatore.

Quel che resta oltre la vittoria

Le guerre e la loro fine definiscono evidentemente delle cesure, anche percettive lasciando sul campo oltre che la ragione dei vinti una visione incapace di cogliere le contraddizioni e le possibilità che potevano emergere prima che le stragi di Hiroshima e Nagasaki fossero attuate. Cogliere ora quel tempo, leggerne le vicende e approfondirne le implicazioni significa aprirsi a nuove possibilità nella nostra contemporaneità che superino le logiche di contrapposizione determinate da una situazione conflittuale e di lotta.

Un’altra possibilità è sempre da ricercare tanto più se si parla di conflitti che coinvolgono sempre più i civili che le forze armate stesse. Una mattanza quotidiana insostenibile che porta con sé il rischio di dare corpo a una valanga di prese di posizione e di scelte conseguenti quelle sì totalmente incontrollabili.

Da questo punto di vista, dal ciglio estremo in cui oggi senza rendersene pienamente conto si trova la civiltà globale contemporanea, scrive Annie Jacobsen, tra le più importanti giornaliste investigative americane ed esperta di spionaggio e guerra. In Guerra nucleare (Mondadori, traduzione di Allegra Panini), Jacobsen offre una cronaca letteralmente cronometrata, pagina dopo pagina di cosa potrebbe scatenare un attacco nucleare.

Settantadue minuti è il tempo di reazione delle forze armate statunitensi che Jacobsen descrive minuto per minuto in ogni sua azione: «È una storia in cui 12.000 anni spesi a costruire la civiltà vengono ridotti in cenere in pochi minuti, qualche ora al massimo. Questa è la vera guerra nucleare».

L’esistenza degli arsenali nucleari insieme all’irresponsabile assenza di equilibri diplomatici dettati da ottusità, complicità e incompetenza potrebbero essere sia la diretta causa dei nostri ultimi settantadue minuti in vita o peggio ancora, come sempre descrive puntualmente nel suo prezioso saggio Annie Jacobsen, il tempo che ci resterebbe da vivi su una Terra da morti se si avesse la sfortuna di sopravvivere. 

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