Londra, primo dicembre 1949. Protagonista: una donna, la mattina successiva al giorno che avrebbe potuto essere un nuovo inizio, per lei, se solo fosse arrivato prima. Circostanze: i soldi non bastano per fare la spesa; i giornali commentano un programma radiofonico della Bbc in cui quattro uomini hanno discusso della donna perfetta ovvero della moglie ideale: empatica, di umore stabile e gentile. Piccola anticipazione per il lettore: nessuna delle protagoniste del romanzo corrisponde a questo identikit.

Donne sole

Il romanzo si intitola Abbandono ma, secondo quanto ci dice l’autrice nelle prime pagine, avrebbe potuto chiamarsi anche Solitudine e, cominciando a leggere, sembra proprio essere questo il tema principale, con una declinazione femminista: la solitudine di una donna che ha lasciato il lavoro alla prima gravidanza, a cui qualche anno più tardi ne è seguita una seconda, con un marito distratto a cui nemmeno lei fa più caso, non fosse per un’antica vergogna che ancora brucia. Il capitolo successivo, però, apre un altro scenario.

Comincia così: «Emigrare richiede risolutezza, pianificazione e coraggio». L’inquadratura si allarga e lo farà fino all’ultima pagina, portando il lettore da Londra a Stoccolma e a Salonicco, in un viaggio tra il presente, il secondo dopoguerra del Novecento e indietro fino al 1492, anno della “scoperta” di Colombo e dell’apice della Reconquista ovvero la sconfitta del califfato islamico di al-Andalus e la cacciata dalla penisola iberica delle genti non cristiane per mano della coppia monarchica cattolica che finanziò il viaggio del navigatore italiano.

Le due storie si intrecciano anche nel libro, brevemente, in un paragrafo: «Quando Cristoforo Colombo partì per il suo primo viaggio nell’agosto di quell’anno, le sue navi furono costrette a salpare dalla piccola città costiera di Palos. I grandi porti spagnoli erano inutilizzabili per via degli ebrei in fuga che in massa cercavano di lasciare il paese».

Storia cancellata

Elisabeth Åsbrink è giornalista e scrittrice, ha vinto premi prestigiosi per la sua capacità di raccontare e di fare ricerca, tra letteratura e reportage, e non sorprende che sappia tenerci incollati a questa intensa saga familiare, al racconto doloroso di un pezzo cancellato di storia d’Europa, a un’indagine nella propria vita e lungo la genealogia che ha portato fino a lei. «È un romanzo, e quindi tutto ciò che racconta è vero», scrive nelle prime pagine giocando con il lettore a concedere indizi evitando di rivelare alcunché.

Cosa sia il vero in letteratura è questione senza una risposta definitiva o univoca ma anche il vero dei ricordi individuali è multiforme: cambia nel tempo, con noi o nostro malgrado, si modifica con lo smorzarsi di alcuni sentimenti o con l’avanzare di altri, magari davanti alla scoperta di fatti importanti nella vita delle persone a noi care e che, per qualche ragione, ci erano stati tenuti nascosti.

Ecco perché nel libro dovremo arrivare fino a K e ripensare, allora, ai personaggi entrati in scena per primi. E riconsiderarli. A partire da Rita: ha sposato un ebreo sefardita, un emigrante che ha lasciato la sua vecchia vita a Salonicco ed è diventato un immigrato che deve farsene una nuova a Londra, passando, così, «dall’abbandonare al senso di abbandono». E quasi senza che ce ne accorgiamo, la migrazione diventa il tema dominante del racconto.

Ci spostiamo a Stoccolma e, con K, d’improvviso, arriviamo a Salonicco, la città dell’impero ottomano dove «i sefarditi presero la disperazione per la loro cacciata e la intrisero di lavoro», ora diventata, nelle parole di K, «capitale dell’Oblio». E l’eco del racconto familiare rimbomba in quello collettivo. La voce narrante si prende la prima persona. Avevamo letto: «Non è che a Rita non piacciano gli uomini, semplicemente non vuole averli tra i piedi». Molte pagine dopo, leggiamo: «Non è che non mi piacciano gli ebrei, semplicemente non voglio averli tra i piedi».

Sarà la voce di K a raccogliere questa frase, pronunciata da sua madre. Sarà K a mettere in dialogo le donne e gli uomini, ebrei, della famiglia, a ricomporre se stessa e un pezzo di storia d’Europa. K sta per Katherine, il nome dell’ultima protagonista della storia, ed è anche lo pseudonimo di Elisabeth Åsbrink, la scrittrice.

Due libri 

Leggendo il suo romanzo, vengono in mente due libri italiani. Il primo, Una famiglia in pezzi di Elisabetta Rasy, dopo un breve prologo si apre nella città in cui Abbandono si chiude: Salonicco.

Anche qui: si racconta di tre città, non più Londra-Stoccolma-Salonicco bensì Londra-Napoli-Salonicco; e una figlia ricostruisce la storia spezzata della famiglia interrogando quella taciuta del padre. In entrambi i libri, è la donna che li scrive a intraprendere un viaggio a ritroso. K è cresciuta in una casa dove erano proibite la parola “ebreo” e “padre” e però sa che quelle due parole la riguardano: lei è, anche, quelle due parole. Per questo sceglie di diventare «la Guerriera dei ricordi perduti»: della sua famiglia e del suo popolo.

Il secondo libro è Giù i monumenti? della storica dell’arte Lisa Parola che riflette su perché e come le statue vengono rimosse, perdendo il loro privilegio all’interno dello spazio pubblico: la verticalità, che obbliga chi le trova sul proprio percorso a cambiarlo, aggirandole, e costringe a guardare all’insù, volendole vedere.

Quello stare “su”, l’incombere sul cittadino, è essenziale al punto che il primo elemento, fondamentale per il suo significato, è il piedistallo su cui la statua è eretta. Va invece in direzione opposta, letteralmente, il progetto d’arte pubblica forse più conosciuto in Europa, «un antimonumento diffuso dedicato alle vittime dell’Olocausto» come scrive Parola. Piccoli blocchi di pietra quadrati, dieci centimetri per dieci, il lato superiore ricoperto di ottone lucidato su cui sono incisi nome, anno di nascita, giorno e luogo di deportazione, data, se conosciuta, della morte del deportato. «Guardo in giù e provo a non calpestare e ogni volta si solleva un insolito senso di disagio. E il mio sguardo segue un percorso contrario rispetto al monumento tradizionale: non il levare ma lo scendere giù, giù fino al marciapiede, giù in basso, e poi stare lì e concentrarsi».

Secondo Parola, uno degli aspetti che rende più significativo il progetto, che è dell’artista tedesco Gunter Demnig e si chiama Stolpersteine, in italiano Pietre d’inciampo, è proprio l’idea di posare a terra quei nomi: «Girando per le vie del mio quartiere a Torino, mi ritrovo ad allungare il passo o a girargli intorno per non calpestarli. E quel passo differente si fa già memoria».

Il cimitero di Salonicco

Vengono in mente queste parole leggendo l’ultimo capitolo di Abbandono, seguendo lo sguardo di K, la «guerriera dei ricordi perduti», andare in giù, sulle piazze e nelle chiese di Salonicco, anche qui con un senso di disagio profondo al punto da diventare rabbia. Salonicco ha scelto di raccontare una sola storia, quella ellenica, cancellando ogni altra e usando letteralmente i pezzi della memoria di un popolo per costruirne una nuova ed epurata: «Quanto ci mettono cinquecento uomini a smantellare un cimitero vecchio di cinquecento anni? Più o meno cinque settimane».

l cimitero è quello sefardita; le lastre di marmo, le lapidi – secondo gli ebrei nefeš, anime – diventano materiale di costruzione. Destinazione d’uso: ovunque. Dalle mura intorno alla Torre Bianca alla piazzetta antistante al Teatro Reale, dalla scala che conduce al portone della chiesa di Nikolaos Orphanos allo stadio della squadra di calcio, ai muri di cinta delle ville del quartiere Panórama, alla chiesa intitolata a Hagios Dimitrios, santo protettore della città, meta di pellegrinaggio dei cristiani ortodossi.

K punta l’obiettivo verso il basso, sulle lapidi dei suoi antenati da cui sono stati grattati via nomi e date: «Ora la gente ci spegne le sigarette e i cani ci pisciano sopra». I cani non hanno colpa, quanto agli esseri umani che dimenticano, sappiano che in un cuore spezzato tutto trova posto. Anche l’abbandono.


Abbandono (Iperborea 2022, pp. 320, euro 18,50) è l’ultimo romanzo di Elisabeth Åsbrink

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