Ricordo precisamente l’anno Domini: era il 2005, e vagabondando per i torridi Stati Uniti del sud la parola “italiano” faceva rima con Bunga Bunga. Ovunque, nei bar e nelle file al supermercato era tutto uno spalancarsi di sorrisi, più complici che di scherno.

I brividi di vergogna, a lungo andare, hanno lasciato posto a una sorta di viscido orgoglio: eravamo finalmente riusciti a esportare una sit-com di successo planetario. Nessuno ci avrebbe pagato i diritti, ma l’appeal pruriginoso del nostro establishment, che oscurava le gesta ormai ammuffite di Bill Clinton, ci scaraventava nello star system del chiacchiericcio internazionale.

La sit-com dell’impero berlusconiano, cannibalescamente percepita nei suoi risvolti più trash, è stata il più fenomenale spettacolo mediatico mai concepito dall’arcipelago televisivo. Il sovrano di Mediaset era riuscito a vendere la propria epopea come un romanzo popolare irresistibile. Era il Mago di Oz, e i suoi spassi trasportavano over the rainbow i diseredati di paesi immensamente più ricchi del nostro.

Chi non era più disposto a ingoiare la favola che si propina in tutte le scuole americane, “ognuno può diventare presidente degli Usa”, poteva almeno sognare di diventare il Cavaliere Silvio Berlusconi, eroe di quell’Italia tollerante e godereccia che ben si guardava dal flagellare i vizi privati dei suoi governanti. Il più fastoso tributo del cinema a questa inedita soap dalle mille stagioni, un Game of Thrones con tutto tranne le spade, curiosamente non ha fatto breccia.

La saga di Sorrentino

Loro, la saga in due parti firmata nel 2018 da Paolo Sorrentino, nel primo capitolo era davvero una Grande Bruttezza dopo La Grande Bellezza. Era uno sfolgorante cabaret pornografico capace di risucchiare e omologare senza distinzione soldi, donne, politica e vita privata.

Era una mirabolante resa in immagini di un basso impero che solo le minoranze più colte e più chic trovavano ripugnante. Agli aspiranti consumatori bulimici senza beni al sole metteva invidia e allegria.

Quel monumento funerario in vita, con Toni Servillo munito del ghigno, della parlata e dell’addome prominente del suo modello, non incise nemmeno per sbaglio sulle successive elezioni: era un ripasso accurato della Weltanshauung di Arcore e dei suoi immediati dintorni ad uso degli insofferenti del trash.

Sorrentino ha un occhio da radar per la volgarità. In quel film intercettava la pornografia del corpo femminile, mercificato, prostituito e sfruttato fino allo spasimo.

C’era un potere che aveva sdoganato le viscere del maschilismo nostrano, la scurrilità sotterranea poteva finalmente inebriarsi della luce del sole e diventare bandiera. Per molti, è innegabile, è stata l’èra promessa della controrivoluzione.

Nella più incisiva metafora del film, l’ultimo dei nostri registi Oscar fa precipitare tra le rovine auguste del Foro romano un camion di raccolta rifiuti, perché un topo di fogna gli ha appena attraversato la strada, e l’immondizia esplode trionfante come nel finale antonioniano di Zabriskie Point. L’auto presidenziale, con scorta, è appena passata.

È una parabola, quella tra il 2006 e il 2010, in cui va ricercata l’origine vera della frattura civile nel nostro paese. È stato il test di un apparato digerente troppo a lungo sottovalutato: ci sono organismi che le grandi abbuffate di bruttezza rendono solo più forti.

La mitologia della villa sarda del presidente di Arcore, col vulcano che erutta e le canzoni napoletane dell’onnipresente musico Apicella, sono ormai Storia patria, non miraggi che nutrono le fantasie del cittadino comune.

Nessun giovane spettatore di oggi riconoscerebbe nel personaggio di Riccardo Scamarcio il leggendario – allora – Tarantini, scaltro faccendiere del mercato sessuale. Ma i “loro” di Sorrentino, “quelli che contano”, quelli tributari di un uomo della Provvidenza “che in questi anni ci ha dato due cose, potenza economica ed entusiasmo”, sono i burattinai del nostro presente.

«Tutto documentato, tutto arbitrario», recitava in calce una citazione di Giorgio Manganelli. Eppure l’immaginifico arbitrio del regista ricostruiva situazioni che nell’Italia del “dopo” non sono più materia di scandalo, come i reclutamenti di signorine esaminate come bestiame al mercato, a base di coca a gogò. Il gusto grottesco del film documentava una svolta di costume reale che ha messo radici nel nostro dna.

Il Signor B

A rigore, nemmeno una svolta: semplicemente un ritorno a istinti soffocati, alle “scuderie di tette” da chiamare liberamente, impunemente col loro nome. E nello sguardo del regista ritrovo quel fondo oscuro, segreto di ammirazione nonostante che avevo provato nelle periferie americane, quasi un però. Trump era di là da venire, ma sarebbe stato più arcigno e meno pittoresco.

Non a caso Sorrentino chiede aiuto a Hemingway per definire il “Signor B: ” Non c’è nessuno che viva la propria vita fino in fondo, eccetto i toreri”. L’ Arena Italia del suo torero ha fatto da tempo un beato laico. E Sorrentino stesso, nel suo sequel del film, Loro 2, ha finito per sponsorizzare la formula soap che è l’orgoglio di Mediaset, concentrandosi sulla love story regale e benedetta dai crismi ufficiali: Il Cavaliere e Veronica.

Il Caimano di Moretti

Neanche Nanni Moretti con il più severo Il Caimano era riuscito a scalfire la corazza berlusconiana. Correva l’anno 2006, e dai banchi della destra parlamentare si chiese a gran voce che si posticipasse l’uscita del film, perché poteva influenzare le elezioni politiche del 9 e 10 aprile.

Si difese, Moretti, precisando a ripetizione che il suo non era un film politico, che la politica faceva solo da cornice a una vicenda di coppia. In realtà, a parte la sequenza sui misteri della valanga di quattrini piovuta dal cielo sull’imprenditore, il fulcro del film era esattamente la transizione di gusto e voglie e sistemi di pensiero del Belpaese, trainata dalla fulgida escalation del nuovo modello di politica-business.

Come pesce d’Aprile, il partito dei Riformatori Liberali annunciò di voler cambiare il proprio simbolo elettorale dal salmone controcorrente al caimano: una bandiera. Come potrebbe accadere adesso in America dopo l’incriminazione di Donald Trump, probabilmente il film di Moretti deviò invece qualche voto incerto verso il nemico. Che decise di usarlo, con la baldanza abituale, come arma di propaganda: «Ieri sera – così aprì il suo comizio a Napoli – abbiamo avuto il piacere di avere sulla Rai un ottimo regista italiano che ha raccontato una fiaba e mi ha dato un soprannome che mi mancava: signori, io sono il caimano».

Nessuna illusione: il cinema non cambia il mondo, e nemmeno la testa delle persone. Lo stesso Nanni, in materia, aveva idee chiarissime, anche sul futuro: chi li condanna, questi “loro”, dalla maggioranza dell’Italia che vota ormai può aspettarsi solo ingiurie e bombe molotov. 

Berlusconi non è il passato, è il futuro. Sono il futuro della Rai i neomelodici grotteschi di Franco Maresco in quel Belluscone. Una storia siciliana del 2014 che pochi hanno visto ma che è la metafora più fulminate mai ispirata dal Cavaliere. Partito da un’indagine su finanziamenti, amicizie e trame di Berlusconi in Sicilia, il padre nobile di Cinico TV (con Daniele Ciprì) ha scovato nel sottobosco della canzonetta di piazza il cuore filosofico della deriva iniziata negli anni ’90.  Neomelodici, tricolore e famiglia (famiglie?): indietro tutta, verso il sol dell’avvenire.

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