«Il desiderio dura un istante ma l’amore l’amore l’amore è una cosa devastante», canta in Più acqua che fuoco, Brunori Sas, all’anagrafe Dario Brunori. Il brano si trova nel suo sesto album, L’albero delle noci che dà anche il titolo alla canzone che porta in gara al Festival di Sanremo. E ce ne sono altri nove come Per non perdere noi che apre il disco, Fin’ara luna in dialetto cosentino, Pomeriggi catastrofici dedicato alla famiglia in cui «niente ti può accadere, niente mai ti accadrà». Più altri brani già fuori come La ghigliottinaIl morso di Tyson, scritto con Riccardo Sinigallia e Dimartino. Ma per ascoltarlo dovremo aspettare il 14 febbraio, giorno che coincide con la serata dei duetti.

La cifra di Brunori, fin dagli esordi 15 anni fa, è saper indagare la vita e le relazioni. Lo fa anche stavolta, sfatando il mito dell’amore perfetto «sono in difficoltà con questa società», conclude in Più acqua che fuoco, che lui definisce «un inno ai moderati». «Tutto il disco racconta i legami, ma anche la fatica e la gioia di mantenere in piedi relazioni stabili. E poi la paura di essere felici, che sto sperimentando di recente», spiega quando ci incontriamo. «Questo album si è realizzato quando ho sentito il forte desiderio di radicarmi».

In che modo?

Ho pensato meno alla carriera di cantautore, e più a crearmi una stabilità. Ho avuto una figlia e ho aperto un’azienda agricola coi miei compagni di università. Poi questo radicamento a un certo punto ha risvegliato in me il desiderio di scrivere. Dovevo vivere, per poi tornare a scrivere.

«Il vero lusso in questi tempi di guerra è avere un orto e un pezzo di terra», canta ne La ghigliottina.

L’epoca è così frammentata e immateriale, che inevitabilmente ciò che è concreto diventa più desiderabile. È una considerazione ingenua nata durante il Covid.

Sarà contento suo padre che la voleva imprenditore e a cui ha dedicato, nel suo nome d’arte, il suffisso commerciale Sas.

Sì, lo è. Facciamo vino e olio nella tenuta di San Marco, dove ho anche registrato il disco. Vado orgoglioso del Pimi Bianco, una Malvasia al 100 per 100 che si accompagna bene coi formaggi. Glielo farò assaggiare.

E dal disco che cosa ci dobbiamo aspettare?

Sarà una valle di lacrime, gli amici che lo hanno ascoltato lamentano che si piange dall’inizio alla fine. Il produttore artistico del progetto è Riccardo Sinigallia, la chiave di volta del mio primario desiderio: scremare tutto quello che non era urgente e necessario. «Qui te credo, qui non te credo», mi diceva in studio.

A chi parla lei?

A ogni età corrisponde una fotografia dei miei dischi. Cerco di dire cose autentiche che mi capitano nella vita. 

Qual è l’artista più lontano da lei?

In generale tutta la trap. Ma grazie ai miei nipoti ne sto ascoltando tanta e farebbe bene non giudicarla a priori. Sono pezzi che non mi emozionano. Ma è ovvio questo. Come se mio padre si fosse emozionato per i Marlene Kuntz. A quel punto non li avrei ascoltati più.

Perché la trap è ai primi posti delle classifiche italiane?

Per urgenza del messaggio, e linguaggio. È come quando io ascoltavo l’Alternative degli Anni 90, o Marilyn Manson. Mia madre era terrorizzata che potessi fare riti satanici, idea che non mi ha mai sfiorato. Aveva a che fare con gli stati d’animo, ed era un modo di rompere uno schema. Così è anche oggi.

C’è un trapper che le piace?

Kid Yugi. Possiamo discutere sul contenuto, ma mi colpisce la sua ricerca sul linguaggio.

Lei è nato e cresciuto in un paese della Calabria, San Fili, che ha 400 abitanti. Come ha iniziato a suonare?

Con la musica riuscivo a esprimere qualcosa che diversamente non veniva. Era un modo per comunicare l’aspetto emotivo. Anche oggi succede. Nella vita quotidiana non sono poetico, sono più ironico e pragmatico. Qualcuno mi definisce un nerd. Però la canzone mi dà l’opportunità di esprimere una parte importante di me. Sono andato avanti con la musica quando ho avuto chiara l’idea: “Voglio suonare perché mi fa stare bene”.

Credits: Toni Thorimbert

Nel suo pezzo Lamezia-Milano scrive «è un viaggio pazzesco da nonno Michele a mio nipote Francesco». Ha mai avuto la tentazione di trasferirsi in una grande città?

Sì, ma non ho mai ceduto. Ho passato lunghi periodi a Milano a registrare dischi. Ma non ho mai avuto casa mia. Non mi ha mai convinto. Sono abitudinario, più di cinque persone raggruppate in una stanza per me è folla. Faccio fatica a pensarmi in un contesto agitato. Perché poi mi conosco, mi divertirei molto ma combinerei poco. Se voglio fare qualcosa con la scrittura mi conviene rimanere in un luogo periferico da cui ho la giusta distanza per guardare le cose del mondo.

Ha avuto da poco una figlia, Fiammetta. Ed è legato alla sua compagna Simona Marrazzo da tanti anni. Il brano di Sanremo ha a che fare con loro?

Ha molto a che fare con questo nuovo paradigma a tre. Samuele Bersani mi ha dato un consiglio: «Vai a Sanremo con un pezzo che ti convince, altrimenti non ne esci vivo». Questo è un pezzo con cui vado a testa alta.

Aveva detto che al Festival non sarebbe mai andato. E poi cos’è successo?

Mi sento più leggero rispetto al passato. Il confronto non mi spaventa, lo sento come un atto di coraggio. Stavo bello comodo, al sicuro, invece ora torno debuttante. Non so se è il frutto dell’età che mi fa osare.

Ha anche voglia di popolarità?

C’è una parte del mio carattere molto riservata, e quell’esposizione lì, dopo un certo periodo potrebbe pesarmi. 

Chi stima tra gli altri concorrenti?

Faccio il tifo per Lucio Corsi, una delle più belle penne che abbiamo. Non è uno che lo fa, ma ci è. È un poeta.

Perché non c’è più politica nei testi dei cantautori?

Quando si cantava di temi sociali è perché quei temi erano appassionanti ed erano parte delle conversazioni delle persone. Oggi quei temi sono ridotti a meri scontri di fazioni.

I giovani non vanno a votare, ma le leggi vengono fatte lo stesso. Anche quelle che a loro non convengono.

Veniamo da anni di individualismo spiccato. Noi crescevamo con l’idea che se volevi uscire da un contesto disagiato, ti dovevi unire a quelli nella tua stessa condizione. Insieme provavamo a sovvertire il sistema. Oggi c’è l’esaltazione del “ce l’ho fatta da solo”. E dei soldi: l’unico strumento che sembra dare capacità di emancipazione è il danaro. Non il danaro per il danaro, ma il danaro visto in modo strumentale.

È diventato padre, ha delle paure?

Ne ho un bel po’. Voglio riuscire a non preservare mia figlia dal buio, proteggendola troppo dalle brutture del mondo.

E sua figlia che cosa ha insegnato a lei?

Un amore che non chiede in cambio niente, un’esperienza del tutto nuova per me.

Qual è la dote che l’aiuterà a Sanremo?

L’ironia, riesco a vivermi con leggerezza le mie ansie.

E quella che potrebbe danneggiarla?

Sempre l’ironia. In un attimo posso trovarmi con delle maracas in mano e giocare al gioco della bottiglia. E in quel contesto posso essere frainteso.

Quanto contano gli applausi per un artista?

Sono il motore, è l’abbraccio. Lo cerchi ma può diventare anche una prigione. Qualsiasi artista con un po’ di consapevolezza lotta sempre tra la ricerca dell’abbraccio, e la parte che accetta di non essere abbracciata. Spesso il successo si nasconde lì.


Brunori Sas sarà in tour a partire dal 14 marzo 2025, prima data Vigevano (Pv). Il 18 giugno suonerà al Circo Massimo di Roma. 

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