A neanche due mesi dal debutto della docuserie SanPa sembra passato già un anno, due, cinque. Per me è stata l’occasione di raccontare una storia famigliare, aprire un faldone e richiuderlo. Ma sgonfiatosi l’hype, ai margini della storia collettiva, sono rimaste delle note appuntate a matita, altre cose da raccontare. L’8 febbraio Vanessa Roghi ha scritto sulle pagine di Domani come la più grande pecca di SanPa sia stata forse quella di relegare il tema delle droghe a una sorta di mondo novecentesco, chiuso nella scatola delle immagini di repertorio. È vero, ha raccontato i passaggi più tetri e irrisolti di un luogo con un nome e una localizzazione così precisi da risultare, infine, scollati dall’oggi, ma è vero anche che quelle note appuntate a matita con l’oggi hanno molto a che fare. Per questo ho contattato due dei testimoni che hanno prestato voce e volto al documentario.

Paolo Negri, entrato a San Patrignano nel 1989, nella sua testimonianza esprime un giudizio netto: il metodo applicato in quegli anni, in quel luogo, è il manuale di tutto ciò che nella stragrande maggioranza dei casi non va fatto. Negri non è solo un ex ospite, è anche un educatore che lavora nel campo delle dipendenze da ventisette anni. La seconda voce è quella di Paolo Severi, che nel documentario spiega di venire da Sassuolo e che lì, all’epoca, «o facevi piastrelle o ti drogavi». Severi però non è solo un ex ospite, è anche una persona che nel 1996 è passata per il carcere e lì ha scritto un diario, divenuto poi il libro “231 giorni” (pubblicato nel 2000 da Frontiera con prefazione di Dario Fo).

Questioni di metodo

Paolo Negri è arrivato a San Patrignano quando le presenze erano incrementate da cento a un migliaio nel giro di quattro anni. Da piccolo borgo a cittadella nel giro di niente. Allo stato attuale delle cose, nonostante le intemperie legali del passato, San Patrignano continua a essere una realtà caratterizzata dalla grandezza nel senso più ampio. Grandi gli spazi, grande il numero degli ospiti, grande la produzione di beni agroalimentari e artigianali venduti all’esterno. Quella che fin dai primi tempi si affermò come “Comunità più grande d’Europa” continua a occupare questo primato a quarant’anni di distanza. Oggi, Negri lavora in un centro di pronto intervento con una capienza massima di diciotto ospiti per volta, e dopo decenni di esperienza sul campo spiega il suo punto di vista sulle falle di una realtà centrata su espansione, quantità, numeri. «Gestire mille o più persone non è possibile se non con un sistema basato sulla disciplina di massa. Il rischio è di dare per scontato che tutti quegli individui siano caratterizzati da una sorta di “identità tossica” riprogrammabile con la linea comune dell’ordine millimetrico, dei ritmi di lavoro, del letto rifatto, della tovaglia da apparecchiare seguendo i quadratini della trama. Ma non tutte le persone che utilizzano sostanze sono uguali. Per alcuni con la tossicodipendenza subentrano nevrosi e comportamenti compulsivi, e potrebbero avere addirittura bisogno di essere educati al disordine». Anche le tempistiche proposte per un percorso completo, a San Patrignano, sono peculiarmente lunghe. Secondo Negri «quando una persona ha fatto tre anni di percorso chiuso all’interno di un mondo iper-organizzato, è facile che il primo fallimento vissuto al di fuori finisca con l’essere devastante». Tuttavia neanche il fallimento va stigmatizzato, e la stessa bandiera del successo terapeutico a tutti i costi ha poca attinenza con la realtà di chi soffre di disturbi da uso di sostanze, o incorra in altre forme di dipendenza. «Nel mio lavoro incontro persone passate da diverse comunità, e che magari ne escono dopo la terza o quarta esperienza. Non è semplice né immediato trovare la situazione ideale per il proprio caso. Ad esempio alcuni hanno bisogno di gruppi di psicanalisi, e non di una comunità a base lavorativa, le risposte devono essere molteplici come lo sono gli individui». «Infine» conclude Negri «non trovo sana la retorica delle ragazze e dei ragazzi “salvati”. L’educatore non è un santo, è un professionista che mette a disposizione informazioni e competenze. In altre parole io sono il vigile urbano che incontri quando ti sei perso, posso indicarti delle vie possibili, ma non è che otto anni dopo aver ritrovato la strada devi persistere in uno stato di adorazione per quel vigile urbano. La linea dirimente è dare protagonismo alle persone anziché alle strutture che le ospitano, impegnarsi affinché recuperino se stesse e non affinché diventino ciò che qualcun altro desidera».

Il carcere ieri e oggi

Di quello che succede nelle carceri si parla poco, a meno che l’accaduto non meriti il bollino di evento estremo, e come tale si propaghi nel mondo esterno sotto forma di notizia. Nell’ultimo anno “l’estremo” e le sue molte sfumature sono state un po’ la base della vita umana sulla terra e, forse anche per questo, di quel che accade dentro i penitenziari si è parlato di più. Ci sono state le rivolte di marzo, i contagi esponenziali dovuti in buona parte al sovraffollamento, c’è stata la sospensione di qualsiasi attività formativa e l’impossibilità di portare il concetto di Dad ai reclusi. Nel libro-diario di Paolo Severi i temi attuali si sprecano: entrare innocenti e uscire colpevoli, il diritto alla salute negato, la sospensione dei diritti civili, la burocrazia in cui si rischia di perdere tutto, l’importanza di attività connesse con la formazione, la sensazione di essere trattati come animali da allevamento intensivo. Mentre leggevo 231 giorni mi chiedevo, ma allora che cos’è cambiato dal 1996? Secondo Severi, che tuttora collabora con associazioni impegnate nel settore, praticamente niente.

«Mentre il mondo fuori è cambiato rapidamente, ad esempio con internet e i social network, all’interno del sistema carcerario vige l’impermeabilità al contemporaneo. È un mondo arcaico con in più il carico di tutti i suoi problemi strutturali. Tuttora si entra neofiti e si esce potenzialmente esperti. La prima volta che entrai era il 1986, ero un ragazzino finito lì per cose da poco. Nella cella di fianco alla mia c’erano un Badalamenti, due pusher della Camorra, un rapinatore. Dopo tre mesi sono uscito con ogni tipo di contatto in ogni settore della malavita». Per Severi, all’inizio, San Patrignano è stata l’occasione di uscire dal carcere anzitempo per seguire un percorso di recupero nella comunità. Poi la polizia è tornata a prenderlo. Lui racconta che dalla comunità fu “espulso” a causa di una storia clandestina con una ospite. Eppure nel suo libro ripete che indietro non sarebbe mai voluto tornare, anche se sarebbe bastato chiederlo con la giusta dose di pentimento. Perché? «Ho fatto il colloquio per entrare a San Patrignano nel 1992 insieme a “77”, proprio il 77 che viene menzionato dai CCCP nella canzone “Emilia paranoica”. Muccioli fissò la sua data di ingresso per il 18 settembre, ma lui si alzò e disse che non poteva perché aveva il concerto dei Guns N’ Roses. Alla fine lo convinsero, ma scappò nel giro di qualche mese. Si chiamava Marco Trascendi, anche lui era di Sassuolo. Io non sono scappato, ma un giorno mi hanno portato via lo stesso. All’inizio è stato un trauma, soprattutto perché pensavo a mia madre. Ma quando mi hanno messo nella cella spoglia la prima cosa che ho fatto è stato infilare le mani tra le sbarre e aprire la finestra. A Sanpa non potevi neanche aprire le finestre senza chiedere il permesso, ho provato una grande sensazione di libertà. Mi stavo esprimendo attraverso un gesto semplicissimo». Quindi hai deciso di non tornare? «Quindi ho deciso che avrei cercato in ogni modo possibile di esprimere la mia personalità. Il fatto è che quando penso a Sanpa non penso tanto a una comunità quanto a un luogo in cui, utilizzando una categoria sconfitta e colpevolizzata, si va a creare un modello di società normato, con le donne da una parte e gli uomini dall’altra, a ognuno il suo ruolo come da tradizione, non ci sono obiezioni e va bene anche lavorare gratuitamente».

Sostanze e pandemia

Paolo Negri racconta che nel suo pronto intervento il rapporto donne e uomini ha sempre visto una netta minoranza delle prime, «a livello di presenze parliamo di un quarto o addirittura un quinto. Oggi abbiamo un boom di donne, sono oltre la metà, quasi tutte con un profilo da alcolista e quasi tutte con compagni violenti e situazioni ulteriormente esacerbate dalla chiusura in casa. Per quanto riguarda la reperibilità delle sostanze da parte dei consumatori, anche durante il primo lockdown, quello è stato un problema relativo. Dobbiamo sempre tenere presente che la persona in sofferenza un modo per raggiungere ciò di cui sente di avere il bisogno tendenzialmente lo trova».

Ma, a prescindere dalla pandemia, va considerato l’apparato legislativo e il clima culturale in cui ci muoviamo. Negri spiega che «in Italia abbiamo un problema di istituzioni ampiamente emerso già con la legge Basaglia. Non è che quel progetto sia fallito, è che non è stato realmente costruito perché ci sono troppe resistenze culturali. Lo stesso principio vale per le dipendenze, dove abbiamo avuto le terribili leggi Jervolino-Vassalli e Fini-Giovanardi, per poi trovarci con operatori dei Serd in difficoltà perché mancano auto aziendali,  sistemi operativi, computer. Sia nell’ambito psichiatrico che in quello delle dipendenze si sceglie sempre la strada più economica, come se non valesse neanche la pena investire».

La mappa perduta

A dispetto di quanto si possa pensare, specie in un’epoca di protagonismo collettivo, esporsi non è facile. A chiusura di una videochiamata di due ore, in cui mi sono confrontata con i due Paolo e troppe cose abbiamo dovuto tagliare, Negri ha raccontato che partecipare a SanPa ha significato innanzitutto parlare con il figlio e con i colleghi, raccontando loro questa sua storia antica e molto privata: «mettere la faccia in questo racconto è stata una scelta forte per tutti».

Ci sono delle persone con storie e vissuti diversi che, a un certo punto di trent’anni fa, sono passate dalla stessa collina senza però incontrarsi davvero. Oggi Paolo Severi, Paolo Negri e molti altri (tra cui Giuseppe Maranzano e Sebastiano Berla, rispettivamente figlio di Roberto Maranzano e fratello di Natalia Berla) collaborano attivamente per mantenere la memoria di quanto accaduto. Tutti i materiali da loro raccolti sono consultabili sul sito lamappaperduta.com. Speravano che la docuserie Netflix aprisse al dibattito su questioni rimosse o ignorate, che non hanno certo a che fare solo con quella struttura e solo con quel tempo. In fondo lo sperano ancora.

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