C’è stato un tempo in cui le città ci appartenevano. Non parliamo solo del senso di appartenenza culturale che lega una popolazione al luogo, ma proprio del fatto che terreni ed edifici erano proprietà di qualcuno. Poi sulla scena ha fatto irruzione la finanza, trasformando la rendita terriera per come era esistita fino ad allora. È accaduto all’estero e lo si vede oggi anche in Italia. La grande dismissione della proprietà “fisica” è un fenomeno che arriva all’immobiliare in ritardo.

L’adorato mattone è rimasto a lungo tangibile certezza per investitori inesperti anche quando la finanza aveva già conquistato tutti gli altri settori dell’economia (e spesso anche della vita privata). Per la casa, la svolta è avvenuta a seguito della crisi finanziaria del 2008 con il tracollo dei mutui subprime negli Stati Uniti.

Cominciata negli anni Ottanta come tentativo di democratizzare l’acquisto e allargare il bacino di consumatori (il motto ai tempi di Margaret Thatcher in Gran Bretagna era “right to buy”, il diritto di comprare), la finanziarizzazione della casa ha portato alla condizione attuale in cui la costruzione e lo sviluppo delle nostre città sono operazioni che, per quanto immobiliari, passano prima dagli operatori della Borsa che dagli uffici comunali dell’urbanistica.

Bologna, Roma, Milano

Città in affitto, un requiem per il diritto all’abitare, edito da Laterza, è un’inchiesta sui meccanismi che stanno trasformando la città, talvolta già noti al pubblico, ma spesso poco compresi. Parla di tre “città in affitto” italiane attraverso storie di piccoli e grandi locatari, di residenti qualunque e imprese nazionali e internazionali dell’immobiliare.

Naviga contraddizioni e conflitti che animano oggi le città tra popolazione in transito e popolazione stanziale, tra turisti e studenti, tra cittadini che si impoveriscono e grandi speculatori che hanno soldi da spendere in tutto il mondo, tra interesse pubblico e interesse privato, tra l’abitare popolare e la gentrificazione. Va alla ricerca di indizi per capire cosa non funziona nella progettazione pubblica dei centri urbani, che dovrebbe essere al servizio del bene comune.

Le città protagoniste sono tre luoghi esemplari dove riconoscere la trasformazione e anche il disfunzionale, ma talvolta efficace, tentativo di rimandare il cambiamento. Sono state scelte perché riescono a cogliere un aspetto universale della storia urbana, pur nelle loro caratteristiche specifiche.

Bologna è “in affitto” da sempre, da quando la sua storia di città si è intrecciata a quella dell’università, una delle più antiche del mondo. Il problema di gestire i forestieri, quindi, è storico: solo che oggi non sono più solo studenti, ma anche turisti.

Troppo grande per essere davvero governabile, Roma è una città-villaggio, dove ogni quartiere fa storia a sé, tra chi resiste e chi si trasforma all’ennesima potenza, nell’esagerazione di una metropoli in cui anche i problemi sono eterni.

Milano è un cantiere sempre aperto sul futuro, un “sogno americano” all’italiana dove risulta ancora più evidente come la corsa agli investimenti provochi dinamiche di espulsione e che ruolo abbia l’amministrazione pubblica nella privatizzazione degli spazi.

Luoghi immateriali 

Le città sono diventate immateriali. Poco alla volta si sono convertite in agglomerati di milioni di posti letto di cui negli anni, senza che qualcuno lo comunicasse esplicitamente, è cambiato il proprietario: le amministrazioni comunali affittano pezzi di tessuto urbano a sviluppatori immobiliari per trasformarle, farle abitare, metterle a rendita.

I cittadini sono inquilini in subaffitto, anche quando proprietari della propria casa: un individuo privato può infatti possedere le mura di un appartamento, non il quartiere intorno. E il cambiamento è avvenuto là fuori, con gli spazi pubblici sequestrati per interessi privati, con la moltiplicazione dei marchi di negozi che si ripetono uguali in tutto il mondo, con il pullulare di bed&breakfast, con l’esplosione della foodification, il fenomeno per cui il cibo è una scusa per occupare pezzi di città. Lo spazio urbano è così diventato “apubblico”, se non privato, e ha finito per respingere sempre più abitanti, a prescindere da quanto fossero “del luogo”, dalla loro storia e identità culturale.

Cosa vuol dire “respingere”? Perlopiù rendere l’abitare economicamente insostenibile nello spazio vissuto fino a quel momento. Il fluttuare del valore di questo o quel settore della città è certamente legato alle opportunità di investimento e agli accordi fra finanza e amministrazione, ma si muove anche “a caccia” del valore aggiunto prodotto dalla cultura di chi li abita, quei luoghi.

Significa che quella stessa appartenenza culturale che abbiamo evocato sopra, e che oramai ha ben poco a che vedere con la proprietà legale, è il plusvalore che il processo di finanziarizzazione della casa cerca, sottrae e sfrutta per mettere il segno positivo al proprio investimento.

L’intero processo non è solo un furto di spazi, ma un furto di cultura vero e proprio, che trasforma la vitalità e il carattere di un quartiere o di un’intera città in un flavour da dépliant pubblicitario, da vendere a turisti, “transitanti” e investitori. Le città, per definizione, concentrano popolazione, servizi, infrastrutture, impianti produttivi, opportunità di lavoro e socialità. Ma anche problemi: disparità sociale, esclusione economica, fonti di inquinamento, pericoli reali e percepiti.

Abitanti a tempo, cittadini “mordi e fuggi”, che a loro volta rappresentano denaro sonante per l’industria della città che fattura facendo marketing di bellezza, cultura, fama, richiamo.

L’esodo

Se entro il 2050, come sostengono le Nazioni Unite, circa il 70 per cento della popolazione mondiale abiterà in aree urbane, allora non si può evitare di partecipare al dibattito su come debbano o possano essere le città del futuro.

Nella pubblicistica internazionale si parla da anni, soprattutto dai tempi della pandemia, di city quitter, di chi lascia il logorio della vita urbana perché la tecnologia permette di lavorare e intrattenersi ovunque. In Italia si è cercato di spingere la ripopolazione delle aree interne anche attraverso questa narrazione, ma con scarsi risultati: l’Istat calcola che nell’ultimo ventennio circa 190mila abitanti si sono diretti verso i centri urbani.

Un esodo che riguarda una popolazione pari a quella della città di Taranto. Sarà una forma di sindrome di Stoccolma, sarà che nonostante tutto le città continuano a offrire più degli altri contesti abitativi, ma è ancora presto per parlare di epoca post-urbana. Ed è certamente troppo presto per archiviare la discussione più impellente: quale spazio spetti ai veri proprietari, i cittadini.


Città in affitto. Un requiem per il diritto all’abitare (Laterza 2025, pp. 224, euro 14) è un libro di Gessi White. Gessi White è il nome di un collettivo di giornalisti d’inchiesta nato nel 2025 in Italia dalla testata “IrpiMedia” (irpimedia.eu), di cui incarna la voce autoriale. Il suo scopo è raccontare come cambiano le nostre società e provare a capire i meccanismi senza confine che governano il mondo. Questo è il suo primo libro

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