Fare l’architetto significa, prima di tutto, immaginare un futuro migliore. È questa la natura profonda della disciplina: ogni progetto porta con sé la responsabilità di trasformare un luogo, lasciandolo in condizioni migliori di quelle in cui è stato trovato.

L’obiettivo non è mai solo costruire per una committenza, bensì generare spazi capaci di rispondere in modo consapevole e trasversale alle esigenze del presente e anticipare quelle del futuro. In queste settimane il nostro mestiere e i suoi campi d’azione hanno trovato spazio nella cronaca delle vicende che stanno coinvolgendo Milano, dandoci un’opportunità di riflessione profonda sullo sviluppo urbano e sul ruolo degli architetti.

A prescindere dalle vicende giudiziarie in corso, una nuova generazione di progettisti deve comprendere quale sia la direzione da dare alla propria responsabilità: di fronte alla città che vediamo oggi, come restituire credibilità all’architettura e al costruire?

L’eccezione Milano

Per evitare racconti distopici bisogna partire da un presupposto: Milano in Italia, è un’eccezione. Milano è il luogo che tiene agganciato questo Paese, sempre in ritardo, al resto del mondo. Ma nel farlo ha commesso errori in cui anche gli architetti hanno avuto un ruolo. Milano è da sempre la città del Design, della modernità di BBPR, Caccia Dominioni, Magistretti, Aulenti, Castiglioni, delle riviste più importanti al mondo e molto altro.

Proprio qui, lo sviluppo economico recente sembra aver progressivamente dissolto l’architettura, riducendola a sagoma della rendita, a falsa sostenibilità funzionale al marketing o a un’azione furtiva di costruzione e distruzione di quella urbanità che dovrebbe contribuire a migliorare.

Fanno eccezione alcune realizzazioni esemplari, come le Fondazioni Prada e Feltrinelli, e gli sviluppi della Bocconi, purtroppo sempre a firma straniera e guidate da realtà private, in questi casi illuminate.

La situazione milanese non è isolata e si inserisce nella contemporaneità di un momento segnato dai risultati di una globalizzazione diffusa. A fare da filo conduttore è un elemento trasversale: l’economia di mercato.

Il risultato è una tendenza a produrre modelli sempre più omogenei, spesso assimilabili per logica e velocità a quelli del fast fashion: soluzioni rapide, pensate per rispondere a esigenze immediate, ma prive di una visione duratura, di relazioni con il territorio e con la memoria dei luoghi, di un radicamento profondo nei contesti in cui si inseriscono.

Il mercato e la città si scontrano sul tempo. Il primo lavora su tempi corti e più immediati possibili, la seconda invece lavora su tempi lunghi e incide in modo duraturo sul territorio e sulla vita collettiva.

Lo spazio frammentato

Massimizzazione volumetrica, immagine immediata del prodotto da vendere, omogeneizzazione del linguaggio definiscono skyline gesticolanti privi di fascino e di rapporti dialettici con il paesaggio e il sistema economico che li genera.

Anche nelle periferie, la città diffusa dei “non luoghi”, con la frammentazione dello spazio urbano e il suo progressivo consumarsi, paiono venir percepiti come degenerazioni inevitabili soprattutto se ci garantiscono un comodo parcheggio davanti al negozio dove ci vogliamo dirigere.

D’altronde, citando le parole di Jean Nouvel recentemente intervistato da radio France Inter, non sono più gli architetti a guidare lo sviluppo del territorio, infatti i risultati si vedono.

Questo sviluppo contribuisce a due delle crisi maggiori di questo tempo. Da un lato il tema ambientale, consentendo il progredire di un alto consumo di suolo, di risorse e di materiali camuffandolo con l’utilizzo di metafore di marketing da pratini sui tetti, alberi sui balconi e tecnologie soggette alla loro stessa obsolescenza e dall’altro al tema delle disuguaglianze sociali che vedono il costante indebolimento di una delle componenti più vitali della città: lo spazio pubblico. Il vuoto delle città, lo spazio delle relazioni.

Quello che Luigi Snozzi Maestro dell’architettura ticinese, il cui pensiero è tramandato dal Seminario Internazionale di Progettazione di Monte Carasso, indicava come primo luogo dell’agire degli architetti e luogo della vita della città.

Qui risiede l’opportunità di questo tempo. Quella che la nostra generazione deve ambire a riprendersi reagendo agli aspetti negativi che l’urbanistica speculativa ha generato.

Rimettere lo spazio pubblico al centro significa restituirgli il ruolo di infrastruttura civile e culturale, di avamposto concreto contro le disuguaglianze.

Significa rinunciare per gli architetti all’ego della forma estetizzante a tutti i costi e tornare ad interessarsi alla pianificazione urbana e all'infrastruttura come strumento strategico per orientare lo sviluppo dei territori mentre per gli operatori economici liberarsi dalle sole logiche autolimitanti del mercato e del mero calcolo di oneri di urbanizzazione. Significa avere delle idee, non delle formule. Tornare a costruire con una visione umanistica di lungo periodo.

L’architetto può farlo, ma non può farlo da solo. Come ha scritto Jacques Herzog in una lettera a David Chipperfield per Domus nell’Agosto 2020: «Non possiamo cambiare la società, ma possiamo dare un contributo tangibile. Il nostro lavoro può effettivamente essere politico ma, paradossalmente, solo se lavoriamo e pensiamo come architetti affinché l'utopia prenda forma fisica, diventi tangibile».

L’architettura può incidere, ma solo se inserita dentro un progetto collettivo. Serve una politica urbana che non abbia paura e che sappia costruire visioni. Servono più aree verdi orizzontali e meno inganni, servono processi aperti e concorsi di architettura. Cosa sta aspettando il parlamento italiano ad approvare il disegno di legge n. 1112 per l’architettura?

La politica, così com’è oggi strutturata, è davvero ancora in grado di governare le trasformazioni urbane? Servono coraggio e visione più che le analisi di mercato delle multinazionali.

I quartieri smart

A Lisbona il processo che ha condotto alla trasformazione dell’area orientale della città in occasione dell’Expo 1998, ben 17 anni prima dell’Expo di Milano, ha mostrato una possibile alternativa. Si è trattato dell’occasione per ripensare 340 ettari di territorio industriale dismesso e inquinato.

Il risultato è un pezzo di città oggi completamente ri-connessa, dimostrando che un’alternativa urbana può esistere anche dentro i nostri attuali sistemi economici. La stazione intermodale di Oriente, pensata per integrare treno, metropolitana, autobus e viabilità lenta, non è solo infrastruttura: è architettura pubblica, è cerniera urbana. Il quartiere é orizzontale, non è stato costruito attorno agli edifici, ma attorno ai vuoti.

A distanza di oltre vent’anni, esperienze analoghe sono emerse in Europa anche al di fuori dei grandi eventi. A Parigi, la Société du Grand Paris è incaricata di pianificare e realizzare il nuovo sistema metropolitano della regione Île-de-France e in Germania, la Internationale Bauausstellung (IBA), da Hamburg a Heidelberg. In entrambi i casi, ciò che conta è la capacità di costruire continuità e coerenza trasformativa in assenza di rendite politiche immediate.

È lì che l’urbanistica torna a essere progetto civile e non amministrazione della rendita. Non sono modelli del futuro esistono già e ce ne sono tanti altri anche piccoli, a volte invisibili, ma reali. Non è più tempo di raccontarsi favole. I quartieri smart, i rendering pieni di verde che promettono città felici e climate neutral, sono spesso solo trucchi. Un albero disegnato su un balcone non lenisce l’impatto del calcestruzzo in aggiunta necessario a sostenerlo.

Una piazza commerciale è uno strumento di rendita e non di collettività. Il verde verticale copre un edificio ma non sostituisce il suolo vivo, il drenaggio di un terreno e nemmeno l’aria salubre di un parco.

L’architetto non è né un artista della forma, né un tecnico dell’arredo, né un marketing manager. L’architetto è, nel senso originario della parola, un politico.

Un lavoratore della polis. Lo spazio pubblico, prima ancora che una questione estetica o funzionale, è il luogo dove quella polis prende corpo, dove il diritto alla città si misura in ombra, attraversabilità, silenzio, incontro. Dove si costruisce il futuro non di chi può comprarlo, ma di chi ci abita.

Dove si combatte la crisi climatica al livello del suolo, con scelte radicali che non possono più essere posticipate e dove una nuova generazione di giovani Europei deve avere il coraggio di riprendersi tra le mani il destino della città del futuro.

Paolo Catrambone è architetto, cofondatore di ORTUS e docente presso l’USI-Accademia di architettura di Mendrisio. Il testo è parte della raccolta L’architettura territoriale a cura di AMA-Accademia Mendrisio Alumni, associazione culturale che riunisce gli oltre 3.000 architetti laureati all’USI-Accademia di architettura di Mendrisio e provenienti da 60 paesi nel mondo

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