Nel 2019, l’anno che precede l’inizio del Coronacene, la poeta Jane Mead si è svegliata una mattina e dal balcone di camera sua ha visto delle fiamme altissime che si avvicinavano alla casa costruita insieme alla madre nella foresta di sequoie della California, dove le due progettavano di trascorrere la vecchiaia circondate da alberi millenari.

Non ha avuto tempo di fare molto: ha aiutato l’anziana a salire sul furgone, ha caricato il suo computer e i documenti di entrambe. Si è assicurata che i cani fossero nel bagagliaio e ha lasciato tutti i suoi averi, compresi i libri, le lettere e le foto di famiglia, i vestiti, i mobili, il pianoforte e le opere d’arte che aveva accumulato con dedizione per tutta la vita. A distanza di settimane il fuoco continuava a dilagare. È riuscita a tornarci più o meno un mese dopo, per riconoscere le ceneri di quello che fino a quel momento aveva rappresentato la sua vita e il suo patrimonio.

Greta Thunberg, l’attivista per il clima più agguerrita – e la più vilipesa – aveva lanciato l’allarme già al Forum economico mondiale del 2019: «La nostra casa è in fiamme. Voglio che agiate come se la nostra casa fosse in fiamme. Perché lo è». Ovviamente nessuno dei leader presenti le ha dato retta, e nel corso di quell’anno la sua metafora è diventata sempre più letterale: all’inizio di maggio il Messico è stato sommerso dal fumo degli incendi, poi è stato il turno della Bolivia, a luglio dell’Amazzonia, della Siberia, dell’Africa centrale, della costa occidentale americana e infine dell’Australia.

Eppure i governi degli Stati Uniti, del Brasile, dell’Australia, dell’India e della Cina non si sono presi neppure la briga di fingersi interessati a ridurre le emissioni di anidride carbonica. Gli incendi hanno continuato a scatenarsi anno dopo anno. Si calcola che, solo nel 2019, abbiano ucciso un miliardo di animali in Australia.

Nel 2019 Greta Thunberg aveva soltanto sedici anni. Le sue compagne Vanessa Nakate, Helena Gualinga e Luisa Neubauer devono ancora compierne venti. Sentirle parlare fa rabbrividire, non solo per i discorsi diretti e spaventosi che fanno, ma perché incarnano la condizione di tutti i bambini del mondo, che riceveranno dalle nostre mani una casa bruciata.

Perdere il controllo

Ho fatto un sogno che non era proprio un sogno.

Il sole splendente era ormai spento e le stelle

Vagavano nell’oscurità dello spazio eterno

Prive di raggi e senza meta mentre la terra gelida […]

[George Gordon Byron, Tenebre, in I giullari del tempo, traduzione di Franco Buffoni, Il Corriere della Sera, Milano 2012]

Comincia così Tenebre, la poesia apocalittica che Lord Byron scrisse nel 1816, mentre soggiornava vicino a Ginevra con la coppia Shelley. L’anno in cui la temperatura mondiale scese tra gli 0,5 e gli 0,7 gradi centigradi passò alla storia come «l’anno senza estate». Al tempo nessuno sapeva che l’aria fredda e la nebbiolina secca e scura che copriva tutta l’Europa, l’Asia e il versante orientale dell’America del nord era dovuta all’eruzione del vulcano Tambora, in Indonesia.

La maggior parte del raccolto di quell’anno fu distrutto dalle gelate. Il prezzo del grano salì, provocando il caos. La carestia causò duecentomila morti soltanto in questo continente. Vi fu chi giudicò gli eventi come segnali inequivocabili della fine del mondo, avanzando l’ipotesi di un Sole agonizzante, e non pochi, terrorizzati da ciò che si stava abbattendo su di loro, si suicidarono.

Nella stessa villa in cui Byron scrisse Tenebre, Mary Shelley concepì – a diciassette anni! – la trama di Frankenstein ovvero Il moderno Prometeo, l’emblematica storia di un medico deciso a resuscitare i morti. Il romanzo porta questo titolo perché, come nel mito greco, il temerario dottore sfida senza remore la volontà divina. Servendosi della tecnologia più moderna, l’elettricità, Frankenstein realizza la sua impresa e dà vita a un essere di 2 metri e 44 centimetri che però non riesce a controllare e che gli sfugge letteralmente dalle mani. La creatura gli uccide il fratello, poi l’amico più caro e per ultima la moglie, durante la prima notte di nozze. A differenza dell’antico Prometeo, quello moderno non è punito dagli dei bensì dalla perdita di controllo sulla sua creatura. Non è forse quello che sta accadendo a noi?

L’apocalisse

Dice la leggenda che la città maya di Uxmal fu costruita in una notte da un esercito di folletti, gli aluxes. Le rovine della città si possono visitare e danno l’idea di quanto fosse magnifico questo luogo, con terrazzamenti e piramidi in cui vivevano fianco a fianco sacerdoti, guerrieri, studenti di medicina e di astronomia, sportivi e alcune famiglie. Per edificare la sontuosa città fu necessario abbattere gli alberi presenti nei boschi circostanti. Il legno fu utilizzato per sculture, panche, parapetti e abitazioni, ma anche all’interno dei templi dedicati a Chaac, il dio della pioggia.

Tuttavia, nonostante le offerte – recipienti d’oro e di giada, copricapo con piume di quetzal, riserve di ortaggi e granaglie – nonostante gli innumerevoli sacrifici di splendidi animali e fiere vergini fatti in suo nome, il dio della pioggia non concesse mai i propri favori agli abitanti di Uxmal. Forse non per disprezzo, come credevano loro, ma perché neanche un dio può produrre la pioggia dove gli alberi sono stati decimati.

Gli abitanti dovettero abbandonare tre volte la città per via delle prolungate siccità. Oxmal significa «costruita tre volte» in lingua maya. Eppure altri sostengono che l’origine etimologica del nome sia nel vocabolo Uch, che significa «futuro». Uchmal sarebbe dunque «ciò che deve arrivare».

Basandosi sulle stelle, i maya predissero che l’apocalisse sarebbe giunta nel secondo millennio, ma si sbagliavano: il loro mondo finì molto prima, con lo sbarco degli spagnoli, le malattie sconosciute che portarono e il genocidio che intrapresero ai danni dei nativi americani. In realtà il mondo, a causa di invasioni o di grandi catastrofi naturali, è già finito per molti popoli, che tuttavia continuano a esistere. E proprio loro posseggono le chiavi della sopravvivenza.

In una sua poesia Octavio Paz dice che la storia è circolare o, per meglio dire, una spirale che ripete il suo corso ininterrottamente. Un paio di anni fa il governo messicano ha avviato la costruzione di una ferrovia che attraverserà la foresta dello Yucatán per ricavarne legno ed estrarre altre materie prime, soprattutto carbone e petrolio. «Ciò che deve accadere» è esattamente ciò che successe agli abitanti di Uxmal, ma su vasta scala, perché l’abbattimento di alberi in quella zona contribuirà alla desertificazione del territorio maya e al riscaldamento di tutto il pianeta.

La paura

Foto AP

Scrivo questo testo seduta su un terrazzo di fronte al mare turchese della spiaggia di Mazunte, sul Pacifico messicano. Intorno a me si estende una cornice di cactus spinosi verde scuro, fiori fucsia e frondose buganvillee. So di essere stata qui molte volte, ma la mia memoria accusa i colpi degli ultimi anni, e gli eventi mi sfuggono. Vivo questa cosa come una perdita delle mie facoltà, come la diminuzione dell’olfatto e del gusto, ma preferisco non pensarci troppo per non deprimermi.

A un certo punto il sole illumina il terrazzo in un modo particolare, e sopra ai mattoni riconosco un disegno fatto sul muro da Lorenzo, mio figlio maggiore, più di dieci anni fa, conservato, per ragioni che rinuncio a spiegarmi, per tutto questo tempo. Di colpo mi si ripresentano immagini di periodi precedenti: mi vedo lì, anni fa, a parlare con mio padre prima che si ammalasse; ricordo Lorenzo in fasce che gattona per raggiungere da solo il bungalow dove dormono i suoi nonni.

Una festa di capodanno con il mio amico Sergio, appena prima dello tsunami in Indonesia e della nostra paura irrazionale che quella stessa onda potesse raggiungerci dall’altra parte dell’oceano. A poco a poco, visione dopo visione, il terrazzo si è trasformato inaspettatamente in un punto cruciale, in un panottico dal quale posso osservare i momenti importanti della mia vita, una specie di Aleph di Borges, ma a livello personale.

La serie di eventi che costituiscono la mia vita, questa vita che mi pare sempre più breve e vertiginosa. Ho fatto qualcosa che valesse la pena, in tutti questi anni? Che cosa sto facendo adesso? Come posso mettere a frutto questo tempo in modo significativo? Spesso mi spaventa pensare al periodo che stiamo vivendo e a tutte le sfide che racchiude.

A volte la paura di ciò che accadrà al pianeta mi paralizza. Quando succede, provo a ricordare Norman Fisher e quello che dice in un testo intitolato El Origen del Miedo: «Il timore si basa sempre sul futuro», dice Fisher. «Nell’intensità piena dell’istante presente non c’è nulla da temere, solo qualcosa con cui bisogna combattere». È una sottigliezza, ma è assolutamente vera; fa paura ciò che accadrà dopo. Se restassimo radicalmente nell’istante presente – e non pensassimo a ciò che è accaduto prima e a ciò che accadrà dopo – la paura svanirebbe. Chiudo gli occhi. Lascio che la brezza mi accarezzi le palpebre e giochi con i miei capelli. Respiro e mi dico: «sono qui».

Come funghi

Poche volte ho sentito la mancanza della natura come durante i mesi che ho passato confinata a Città del Messico dal coronavirus. Poche volte ho sentito di più la mancanza del mare, della montagna, della campagna. Immagino che questa sensazione mi accomuni a molte persone.

L’estate scorsa sono stata con i miei figli e il mio compagno nei boschi dell’Oregon. Una coppia di amici che nel 2020 ha campeggiato per più di trecento giorni si è offerta di iniziarci all’arte di dormire per più notti in mezzo alla natura, cosa che, come sa qualunque cittadino che ci abbia provato, è meno semplice di quanto sembri. Bisogna sbarazzarsi di molte abitudini, di molte manie e nevrosi, per scoprire che in realtà gli oggetti che ci sembrano imprescindibili, cellulare compreso, non sono così necessari.

Nel posto in cui ci siamo accampati la vita straripava in ogni pianta, dimora di decine di insetti. Abbiamo visto un alce e diversi cerbiatti, conigli, procioni, uccelli canterini, insetti di tutte le dimensioni, che splendevano come piccoli gioielli volanti. L’acqua del fiume era potabile, ma anche talmente limpida che sul fondale si vedevano nuotare i pesciolini colorati.

Una mattina siamo andati a camminare in montagna, in un luogo che si poteva raggiungere soltanto a piedi, dopo aver attraversato il fiume. Un luogo visitato di rado dagli esseri umani. Volevano andare a raccogliere i funghi. I funghi Reishi e Coda di tacchino, ci hanno spiegato, si sono rivelati utilissimi nella cura di malattie come il cancro, perché contribuiscono a rigenerare i tessuti. Sono più efficaci quando si raccolgono in boschi isolati, lontani da qualunque agente contaminante.

Quella mattina mi è sembrato logico partire alla ricerca di una medicina o dell’elisir della vita in luoghi preservati, dove la natura è ancora intatta. I luoghi dove nessuno ne ha ancora abusato sono quelli in cui la madre terra esprime tutto il suo potere. I funghi, lo sanno tutti, si nutrono di organismi in decomposizione. Sono i grandi riciclatori, alchimisti capaci di trasformare la morte in vita, un po’ come il dottor Frankenstein che cercava di animare una creatura creata con pezzi di cadaveri diversi, ma senza tecnologia.

I funghi assumono forme e comportamenti di ogni genere. Per me sono le macchie verdi che crescono sul pane, usate per produrre gli antibiotici, ma anche tutti gli altri esseri che fanno risorgere la vita o la mantengono quando il mondo sembra soccombere all’entropia. Le amiche di mia madre che badavano a me e a mio fratello quando lei era malata o in viaggio erano funghi, a modo loro.

Sono funghi anche i giovani che si sono organizzati spontaneamente per estrarre le vittime dalle macerie durante il terremoto che ha devastato Città del Messico nel 2017; i medici e gli infermieri che hanno messo a repentaglio la propria vita assistendo i malati di Covid quando nessuno era vaccinato. I bambini e gli studenti che hanno sopportato stoicamente la reclusione di mesi e mesi per evitare che gli anziani si contagiassero durante la pandemia. Vorrei, come molte altre persone, lasciare ai miei figli e alla loro generazione un pianeta pulito, un luogo sano, e insegnare loro ad avere un rapporto armonioso con la natura. Vorrei dire loro che è importante preservarla e difenderla, ma se il nostro mondo dovesse finire prima che questo accada, vorrei incoraggiarli anche a essere come i funghi che trasformano la putrefazione in vita. E – visto che la storia è una spirale – vorrei trasmettere loro la certezza che dalle macerie rinasceranno sempre gli alberi, il muschio, il micelio, l’arte, la poesia e altre cose belle.

Traduzione di Federica Niola

Guadalupe Nettel è nata a Città del Messico nel 1973. Nella sua carriera ha ricevuto diversi riconoscimenti tra i quali il premio franco-messicano Antonin Artaud (2008), il premio tedesco Anna Seghers (2009), il Premio de narrativa breve Ribera del Duero (2013) per la raccolta di racconti Bestiario sentimentale, il Premio Herralde de Novela (2014) e il Premio Cálamo per La figlia unica (2020). Con La Nuova Frontiera ha pubblicato Bestiario sentimentale, Petali, La figlia unica Il corpo in cui sono nata.

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