Cronache dal Paradiso è la storia di una casa sormontata da un grande orologio, di un cespuglio di ortensie azzurrine (colore irriproducibile, che rimanda all’Eden), di una famiglia di origine e delle famiglie in seguito scelte e trovate, di molti traslochi, viaggi, mani nella terra in attesa che qualcosa germogli e nasi tra le pagine a respirare infiniti libri.

È un memoir, è un viaggio antologico nella biblioteca dell’autrice, un carosello di vite di donne e uomini dalle vite prodigiose, un erbario affettivo, un trattato di botanica letteraria. Che cos’è? Come definirlo? La risposta è che non è necessario farlo. Perché Cronache dal Paradiso, ultimo libro di Serena Dandini (uscito per i tipi di Einaudi Stile Libero l’8 novembre) è soprattutto espressione di una profonda libertà intellettuale.

Mentre leggo e sottolineo faccio un esame di coscienza in qualità di killer di piante. Ho il pollice nero e una coinquilina che ogni giorno parla con le sue amiche che abitano nei vasi di coccio. Ne riempie casa e terrazzo. E a suo rischio e pericolo me le lascia da bagnare quando è via.

Il peso della responsabilità ha fatto sì che finora – almeno tra queste – non ne uccidessi nessuna.

È una indubbia soddisfazione, ma sto divagando perché il punto è un altro. Il punto è la tenerezza. La tenerezza che si riscontra (e di riflesso si prova) osservando chiunque ami e accudisca esponenti della specie vegetale. L’idea che si possa provare una forma di affetto per creature viventi così diverse dagli animali e dagli animali umani. Di questa tenerezza – insieme all’irrinunciabile ironia – sono intessute le pagine di Cronache dal Paradiso.

È un fenomeno che si verifica anche nei punti che sappiamo o intuiamo essere più malinconici, perfino tristi (del resto la vita è costellata di tristezze e malinconie), e che sempre ci riporta in superficie perché laggiù, in fondo a una nuova difficoltà, c’è ancora la speranza di una nuova fioritura.

Così Dandini apre le porte del tempo e ci fa entrare nel salottino a fiori dove ha trascorso l’infanzia, mostra il giardino dove nonna Enrica seppelliva chiodi arrugginiti per agire da vera demiurga sul colore delle sue ortensie leggendarie e, a tradimento, inizia a raccontare storie che portano molto lontano.

Da qua in poi, non smetterà fino all’ultima pagina. Incontriamo il motivo per cui dietro al nome della bouganville si nascondono un’ingiustizia e la storia incredibile di una donna avventurosa; familiarizziamo con la vicenda umana e professionale di Agatha Christie, intimamente connessa con lo studio dei veleni e – ancora – delle piante da cui essi vengono ricavati; scopriamo che Schiller amava circondarsi di cassette di mele marce e inebriarsi dell’effluvio di putrefazione, a suo dire davvero speciale a fini creativi. Storie di donne e di uomini che hanno vissuto alzando l’asticella delle nostre libertà possibili, ricavando il proprio spazio di espressione anarchica nel punto di intersezione tra storia, letteratura, arte, giardinaggio e botanica.

Botanica e Rivoluzione

Questo paragrafo poteva intitolarsi anche Giovani e Santi, in quanto il paradiso dandiniano è anche, in parte, la storia di una generazione. Nello specifico la storia di quella gioventù che negli anni Settanta, al contrario di una pianta ben radicata nel terreno, si è molto e forsennatamente spostata, cercando ai quattro angoli della terra un modo per cambiare il mondo («Sarebbe difficile, ora, spiegare cosa cercava quella moltitudine di ragazzi della mia età che da ogni paese del mondo convergeva sulla rotta verso l’oriente. Secoli dopo l’avventura di Sant’Amaro»).

Ma se è vero che i tempi sono cambiati, è vero pure che cambiare il mondo è sia una pratica che un sentimento, e se è autentico non si esaurisce.

Per questo nella narrazione di Dandini raccontare di piante significa inevitabilmente parlare di ecosistema, emergenza climatica, sfruttamento delle risorse naturali, devastazione dell’Amazzonia, impoverimento e sfruttamento della forza lavoro in Madagascar. Non suona troppo strano che a raccogliere queste battaglie siano così spesso delle donne.

Andare è più necessario che tornare per le ragazze ribelli il cui tempo dell’infanzia è stato scandito da orologi in ritardo. Ed è necessario ora parlare di ragazze, perché a prescindere che si tratti di membri della famiglia o nomi illustri, in Cronache dal Paradiso sono proprio le loro storie a colpire di più.

Scriveva Natalia Ginzburg in un noto articolo pubblicato nella raccolta Un’assenza (Einaudi, 2016): «Le donne sono una stirpe disgraziata e infelice con tanti secoli di schiavitù sulle spalle e quello che devono fare è difendersi con le unghie e coi denti dalla loro malsana abitudine di cascare nel pozzo ogni tanto perché un essere libero non casca quasi mai nel pozzo e non pensa così sempre a se stesso ma si occupa di tutte le cose importanti e serie che ci sono al mondo e si occupa di se stesso soltanto per sforzarsi di essere ogni giorno più libero». In Cronache dal Paradiso siamo al costante cospetto di donne che nel pozzo sono scese per attingere a una tradizione sotterranea di autodeterminazione, soggetti di rottura che potevano venire dalla miseria come dalla più alta aristocrazia (da Jeanne Baret figlia di braccianti alla regina Cristina di Svezia). Dandini ci narra che è questa tradizione ufficiosa, parallela a quella ufficiale, a contribuire alla libertà di tutte, e che un giorno può arrivare fin dentro alle nostre famiglie sotto le mentite spoglie di una zia architetta mora, così come di una zia bionda reginetta di bellezza (ma, in fondo, anche di una madre che setaccia i campi arati alla ricerca di reperti archeologici).

Case

All’inizio del racconto I fantasmi di Loiret, contenuto in Paranoia (Adelphi, 2018), Shirley Jackson accenna a un nonno, un bisnonno e un trisnonno che furono architetti. Lungo la linea di sangue qualcuno ha accumulato il patrimonio di famiglia costruendo case per milionari, mentre qualcun altro lo ha dilapidato pensando che le stesse case si potessero costruire su dune di sabbia. In questo contesto era forse inevitabile che Jackson finisse con lo scrivere storie. A lei, narra, non interessa costruire case: «Non ho bisogno di possederle, di viverci dentro e neppure di entrarci; mi piace semplicemente guardarle». Vuole solo avere “belle foto di case da guardare”. Serena Dandini dal canto suo ci accompagna a conoscere la sua, di linea di sangue. Una zia dal rossetto scarlatto – proprio quella bella e mora – che ha studiato architettura in tempi da vera pioniera. Appassionata di pittura, esuberante, gelosa della propria indipendenza. Ma non è stata lei a dilapidare il patrimonio di famiglia. Non c’è spoiler, Dandini lo dichiara nel suo incipit: «Prima che mio padre con l’abilità di un mago dissolvesse le fortune di famiglia, c’era una casa di campagna». In un certo senso c’è ancora, è proprio quella che vediamo nella foto in bianco e nero sulla copertina. Ogni cosa non è perduta finché è ricordata ed è – infine – salva, quando viene trasfigurata dall’opera della scrittrice fino a diventare personaggio.

Paradiso

È salva anche quando ce ne andiamo per sempre. «Un trasloco è un piccolo funerale, però più allegro», leggiamo in un passaggio che è sovversione pura, il momento in cui l’autrice dichiara che può allontanarsi da un luogo senza soccombere alla nostalgia degli immobili, ma non può abbandonare le piante, e che le piante non sono immobili affatto. Possono spostarsi con te a bordo di un tir. «E se le piante fossero mute per noi poiché noi siamo sordi per esse?», si chiedeva Gustav Theodor Fechner, nel 1848, nel trattato Nanna o L’anima delle piante (Adelphi, 2008). Dandini si mette in ascolto di queste creature solo apparentemente mute e viaggia con lettrici e lettori attraverso gli anni, i libri, le fioriture e i territori. Può essere un giardino dell’infanzia nel Viterbese oppure la rotta verso Kabul, può essere una casa comune nel cuore selvaggio dell’Umbria – dove niente è come sembra e un trattore fa le veci di una lampadina – così come un nuovo nido nella punta assolata d’Italia.

I paradisi sono molti, alla fine di queste cronache sappiamo che non dobbiamo spaventarci se alle spalle ne abbiamo uno perduto, ma andare avanti e coltivarne uno nuovo.

© Riproduzione riservata