Lo schema è sempre quello: la colossale operazione di polizia o carabinieri, le perquisizioni all’alba, le decine di arresti, la conferenza stampa a metà mattina con un bel mazzo di fototessere per i giornalisti, l’accusa di terrorismo, le paginate sui giornali locali. E medesimo è anche l’iter successivo: qualche dubbio del Tribunale del riesame, sentenze di primo grado ridimensionate rispetto alle richieste delle procure, spesso intere cancellazioni in appello. Salvo poi ritrovare i nomi dei coinvolti in blitz successivi, con la giostra che riparte, fa il giro e torna al punto di partenza. E poi di nuovo. E poi ancora.

Leggendo La pista anarchica di Mario Di Vito (sottotitolo: Dai pacchi bomba al caso Cospito), appena pubblicato da Editori Laterza, il pensiero corre subito al mito di Sisifo e a quel macigno che, spinto a fatica sulla cima di una collina, poi rotola giù inesorabilmente. E ogni volta ancora.
Se non ci fossero spesso di mezzo anni di galera (e naturalmente bombe e attentati anche con ferimenti), si potrebbe quasi sorridere: possibile che dopo anni di film uguali il canovaccio sia quasi sempre quello? E come è possibile che costante sia l’allarme ogni volta lanciato dagli inquirenti circa la sicurezza dello stato, nonostante la messe di operazioni di polizia, di inchieste, di arresti e processi?

Compendio formidabile

La verità poggia su alcune circostanze di fatto. La prima: in tanti anni, gli anarchici insurrezionalisti (termine su cui si tornerà) non hanno ucciso nessuno. Feriti sì, più d’uno. Bombe e bombette numerose.
E un gambizzato, l’amministratore delegato di Ansaldo Nucleare Roberto Adinolfi nel 2012 a Genova, unico episodio in qualche modo paragonabile alle azioni terroristiche che hanno insanguinato l’Italia degli anni Settanta, quando l’emergenza eversiva era all’ordine del giorno.

Ma di morti, zero. D’altra parte, come detto, i mille blitz si sono spesso risolti in flop giudiziari. Perché, nota asciutto e un po’ beffardo Di Vito, «quando si conduce un’inchiesta e si effettuano degli arresti, bisognerebbe assicurarsi di avere delle prove in grado di reggere all’urto di un processo».

I casi a contrario casi che l’autore cita sono uno più sconcertante dell’altro. Di qui la riproposizione di un refrain classico del cinema poliziottesco: la polizia incrimina, la legge assolve. Quasi che i magistrati sotto sotto covino tutti un animo libertario, come ogni “toga rossa” che si rispetti, no?

E Di Vito: «Ovviamente non è così, anzi, sono moltissimi i magistrati che accolgono ogni volta con gran favore le iniziative della polizia contro gli anarchici. Il problema è che poi esistono anche i giudici, ovvero coloro che sono incaricati di guardare i fatti e decidere cosa è meglio fare. Ecco, tra le altre cose, si tratta di persone che per emettere condanne richiedono la presentazione di qualche prova».

Di Vito, già autore di un notevole saggio sull’uccisione di Roberto Peci da parte delle Brigate rosse, è giornalista del Manifesto. E la sua analisi, come traspare anche da questo brano citato, nonostante la neutralità espressa in premessa del volume, conferma quanto egli stesso afferma (peraltro subito dopo): cioè che «il tempo presente richiede cautela, e chiunque – a torto o a ragione – metta la propria esistenza al servizio di un ideale di giustizia merita quantomeno di essere trattato con dignità, cosa che non sempre avviene».

Preso nota dell’avvertenza, La pista anarchica è un formidabile compendio, per dirla alla Woody Allen, di tutto che avreste voluto sapere sugli anarchici e non avete mai osato chiedere. Dove per anarchici si devono intendere però gli anarchici informali, appunto detti anche insurrezionalisti, cioè non quelli della Fai storica, la Federazione anarchica italiana nata a Carrara (e dove sennò?) nel 1945 come prosecuzione della vecchia Uai, l’Unione anarchica italiana disciolta dal fascismo.

Qui per Fai si deve intendere invece la Federazione anarchica informale, dove i primi due termini non hanno bisogno di spiegazioni particolari, se non che il secondo, parole di loro stessi (il libro è ricchissimo di documentazione proveniente da fonti tutto sommato aperte dell’area insurrezionalista), comprende anche l’avversione verso «qualunque cancro marxista, sirena incantatrice che incita alla liberazione degli oppressi ma in realtà macchina incantatrice che schiaccia la possibilità di una società liberata per sostituire un dominio ad un altro».

Ed è una specificazione che andrebbe sempre tenuta presente, quando si parla di anarchismo. E poi appunto “informale”, mille miglia lontana cioè da concezioni avanguardiste e soprattutto «unico strumento organizzativo che ci potesse garantire da meccanismi autoritari e burocratizzanti salvaguardando la nostra indipendenza come gruppi/singoli».

Propaganda del fatto

Gran parte della partita giudiziaria si gioca su questo punto. Per polizia e procure, infatti, esisterebbe una struttura gerarchica e occulta a coordinare uomini e azioni degli anarchici informali. Per questi ultimi, invece, nessuna organizzazione, men che meno una struttura, figuriamoci una gerarchia, irriducibili come sono da sempre i libertari nel rifiuto di ogni potere costituito.

E dunque, riassume Di Vito, chiunque decida di far scoccare una scintilla contribuisce a remare nella direzione della rivolta generale, questo sì obiettivo ultimo. Senza bisogno di ordini. Senza necessità di pianificazione. Siamo all’essenza profonda della cosiddetta “propaganda del fatto”, caposaldo di una certa cultura anarchica che, a cavallo tra Ottocento e Novecento, molto teorizzò sul punto e ancor più mise in pratica.

Il caso Cospito

È evidente che la prima impostazione, quella di polizia a magistratura inquirente, porta in automatico a far lievitare imputazioni e ipotetiche pene, per via del reato associativo con l’aggravante del terrorismo, concludendo regolarmente per l’indicazione di un piano eversivo coordinato e di dimensioni gigantesche, che si starebbe dispiegando da anni.

L’esempio ormai classico di questo tipo di lettura è costituito ovviamente dall’inchiesta “Scripta manent” della procura di Torino, per capirci quella che ha portato alle condanne di Alfredo Cospito e della sua compagna Anna Beniamino per un copioso elenco di azioni terroristiche tra plichi esplosivi e pacchi bomba (oltre all’attentato ad Adinolfi, peraltro già giudicato in precedenza).

Non si rifarà qui la storia dello sciopero della fame di Cospito, della sua detenzione ai sensi dell’articolo 41 bis e dei palleggiamenti tra le Corti circa la riformulazione del reato e della condanna (cronaca recente che sta tutta nel libro): sta di fatto che, al netto di tutto, era in ballo un ergastolo per via di una bomba esplosa nottetempo senza la possibilità di ferire nessuno.

E anche qui il pensiero corre inevitabilmente ad altro, nella fattispecie alla ventina di bombe del 1969 soprattutto in luoghi pubblici, con numerosi feriti benché lievi, per le quali Freda e Ventura a suo tempo, spuntando un’insperata assoluzione per la strage di piazza Fontana, si presero non più di quindici anni.

Il caso Cospito è solo la punta di un iceberg che Di Vito perlustra nella sua interezza, immergendosi nei vari blog della Federazione anarchica informale, precisando con puntiglio i tanti esiti giudiziari, raccontando personaggi leggendari come Alfredo Maria Bonanno (per certi versi il teorico dell’insurrezionalismo anarchico), Pasquale Valitutti (dalle stanze della questura di Milano la notte di Pinelli alla prima fila di tutte le manifestazioni odierne, sulla sua carrozzina), brevemente anche quel Gianfranco Bertoli che il 17 maggio del 1973 fece strage con una bomba ananas davanti alla questura di Milano, addirittura Horst Fantazzini, il leggendario “rapinatore gentile”.

E poi i “black bloc”: quelli del G8 di Genova ma non solo, dei quali si tratteggiano con particolare precisione storia e filosofia. Per dire insomma che La pista anarchica cala l’attualità del caso Cospito – e di una certa propensione giudiziaria italiana – in una cornice più ampia, spesso trattata invece con sufficienza e imprecisione dalla stampa nazionale, generando fraintendimenti.

La ricetta democratica

È invece impossibile fraintendere le parole che qualcuno distillò nel 2008 per illustrare la propria «ricetta democratica» (testuale) per l’ordine pubblico.

Di Vito le riporta, eccole: «Ritirare le forze di polizia dalle strade e dalle università, infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città. Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri.

Nel senso che le forze dell’ordine non dovrebbero avere pietà e mandarli tutti all’ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli e picchiare anche quei docenti che li fomentano. Soprattutto i docenti. Non dico quelli anziani, certo, ma le maestre ragazzine sì». Parole di Francesco Cossiga. Già ministro dell’Interno, presidente del Consiglio e capo dello Stato.


La pista anarchica. Dai pacchi bomba al caso Cospito (Laterza 2023, pp. 176, euro 18) è un libro di Mario Di Vito. 

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