Nel 1977 Deborah Barsel, segretaria del George Eastman Museum di Rochester, New York, avviò un progetto intitolato The Photographer’s Cookbook.

Questo progetto prevedeva la raccolta delle ricette preferite con relative fotografie a tema culinario di oltre 120 fotografi prominenti dell’epoca.

Tra questi c’erano Ansel Adams, Imogen Cunningham e William Eggleston.

Le ricette spaziavano da piatti come «Poached Eggs in Beer» di Ansel Adams a «Cheese Grits Casserole» di William Eggleston.

Sebbene il progetto sia rimasto incompiuto per circa quarant’anni, nel 2016 è stato riscoperto e ha dato vita a un libro che mostra l’intersezione tra fotografia e cultura culinaria negli anni Settanta.

Di fatto, la segretaria del primo museo di fotografia al mondo aveva intravisto le potenzialità e il fascino delle foto dedicate al cibo, innescando una sorta di food porn ante litteram.

Come spiegano Carol Coricelli e Sofia Erica Rossi nel libro Guida per cervelli affamati (Il Saggiatore), la visione influenza in modo decisivo la nostra percezione del mondo e i nostri desideri.

Se affamati, basta guardare un piatto gustoso per provare la sensazione di acquolina in bocca, la famosa attivazione delle ghiandole salivari che, producendo saliva, ci preparano a ingerire e digerire il cibo.

Su questo meccanismo primordiale si regge tutta l’architettura di contenuti che alimenta il fenomeno del food porn.

Dagli scatti analogici raccolti da Barsel all’epoca dei social oggi questo paradigma metagastronomico muove molti milioni di euro.

Ma, come accade per quasi tutti i trend, anche il food porn sta cambiando.

Dallo stimolare il desiderio di mangiare sembra che i content creator, sempre affamati di like più che di cibo, stiano virando verso il disgusto.

Non stupitevi se, dopo l’ennesimo reel in cui si combinano ingredienti ultraprocessati e discordanti tra loro, avrete voglia di allontanarvi dallo schermo (per poi tornarci dopo qualche minuto per scoprire un nuovo, ancor più disgustoso contenuto).

Cosa ci dice il cervello

Elaine di @elaincarolskitchen mescola mini wurstel, zucchero di canna, pomodori, uova e altri ingredienti per creare dei muffin che, per convincerci della loro edibilità, addenta alla fine del reel.

Il profilo @Verystupidfood (oltre 26mila follower) riporta la definizione di «negozio di cibi sani», ma propone ricette che definire disgustose è un eufemismo.

Eppure, davanti alla supersalsiccia immersa in una specie di gelatina alimentare e poi «condita» con della salsa al formaggio, non sono stata in grado di smettere di guardare.

Sapere cosa avrebbe combinato con quel wurstel era un desiderio più forte del disgusto che stavo provando.

Ma ecco, anche questo oggi è food porn, e non si può fare a meno di chiedersi: quand’è che questo trend si è apparentato con il disgusto?

«Il disgusto è una reazione istintiva del sistema limbico, la parte più antica del cervello, che si attiva per proteggerci», spiega Vincenzo Russo, professore ordinario di psicologia dei consumi e neuromarketing direttore centro di ricerca neuromarketing Iulm:

«Aiuta a evitare sostanze, situazioni o comportamenti potenzialmente dannosi per la salute o per il benessere sociale. In sintesi, mira a farci riprodurre e sopravvivere, oltre a far sì che l’esperienza negativa non possa più nuocere. Bastano 13 millisecondi, riusciamo a capire grazie all’amigdala che poi attiva l’insula se una cosa è buona o cattiva. La variabile razionale entra in gioco dopo 500 millisecondi per valutare la correttezza della reazione istintiva».

Disgusto e marketing

Questo meccanismo ancestrale di difesa è da sempre evitato dal mondo del marketing perché allontanerebbe i potenziali consumatori.

«Nel sistema limbico, così come anche in tante altre parti del cervello, abbiamo dei neuroni specchio che si attivano sia quando si compie un’azione sia quando la si osserva.

Scoperti da Giangiacomo Rizzolatti, servono a stimolare l’empatia.

Ora, quando noi guardiamo il disgusto di qualcuno, noi stessi proviamo questa emozione. Sarebbe controproducente per il business».

I contenuti social che applicano il disgusto al food porn sembrano quasi voler normalizzare qualcosa che, se assaggiato nella vita reale, farebbe veramente schifo.

Nella sua negatività, il tortino di miniwurstel addentato da Elaine attrae.

Fa quasi venir voglia di prepararlo per capire se il tortino è davvero commestibile.

«Nella sua negatività è attrattivo. Sono delle esagerazioni create per creare un forte engagement, ma coerenti con le reazioni provocate dal disgusto, quindi poco funzionali alla vendita di un qualsiasi prodotto, ma sicuramente funzionali per acchiappare like e visualizzazioni».

Il futuro del food porn

Da sempre il cibo è una rappresentazione simbolica di valori ed esperienze, che contribuiscono alla costruzione dell’identità.

Dato che gli organizzatori sociali – famiglia, lavoro, religione – hanno ridotto il loro potere, questo vuoto è stato colmato dai social. Raccontare l’esperienza gastronomica significa anche raccontare sé stessi, costruendo la propria identità un piatto alla volta.

Ma tocca farlo in modo ingaggiante, per essere visti dagli altri.

«Gli estremi gastronomici saranno sempre più rilevanti», sottolinea Russo. «Da una parte ci sono serietà, sobrietà e un revival di osterie e piatti tradizionali.

Il contraltare di tutto questo è un contenuto carico, esagerato, un modo come un raccontare e raccontarsi».

Siamo passati, dunque, dall’acquolina al disgusto.

Ma cosa viene dopo? Secondo Russo, saranno le esperienze social a cambiare.

«I contenuti diventeranno sempre più polisensoriali, grazie a soluzioni tecnologiche in grado di offrire maggiore esperienzialità. Sono in corso tentativi per riprodurre profumi attraverso i device. Anche perché oggi riusciamo ad attivare solo udito e vista».

Tutto per acchiappare qualche cuoricino.

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