Lo chef Gaggan Anand dell'omonimo ristorante di Bangkok è diventato famoso per servire del (finto) cervello di ratto.

Nessuno sa davvero quali siano gli ingredienti del piatto, ma l'obiettivo della provocazione è portare all'estremo la «cucina a chilometro zero», come a dire: «Ecco tutto ciò che offre la giungla di cemento di Bangkok».

A Copenaghen Rasmus Munk, nel suo Alchemist – due stelle Michelin e una stella verde – porta in tavola un pre-dessert a base di sangue di suino. Un piatto che si ispira alla tradizione nordica blodpudding, ma che ha innanzitutto l'obiettivo di sensibilizzare il cliente sul tema del consumo di carne e del benessere animale.

Più di dieci anni fa, per promuovere il proprio lavoro, lo chef David Muñoz, del ristorante DiverXo – tre stelle Michelin a Madrid – pubblicava sul sito del locale il manifesto per eccellenza di una cucina disturbante. Un video dalle atmosfere sinistre, in cui la voce narrante conclude sfidando il cliente: «L'unico modo che avrai per liberarti di me sarà uccidermi». Vanguardia o morir , avanguardia o la morte.

Ma in Italia esiste una cucina che metta in discussione le convenzioni del gusto? E come si può creare innovazione senza alienare il commensale? È una partita complessa, che si serve della ricerca, ma non può non mettersi in ascolto del cliente, a volte, ha ancora bisogno di educare per essere capita.

Più strano, più buono

«Una volta Ferran Adrià mi disse che quando un piatto piace al 50 per cento dei commensali è già un successo e io gli risposi che non me lo sarei mai potuto permettere, perché a Marzocca di Senigallia se non accontenti 50 persone è già un disastro», Moreno Cedroni ha un tono allegro, quasi divertito, quando parla della propria cucina.

Chef due stelle Michelin nella sua Madonnina del Pescatore, roccaforte italiana della cucina di mare sperimentale, iniziava più di 40 anni fa il lavoro sulla frollatura del pesce, con sapori e consistenze inedite. «Io ho iniziato con le interiora, con la trippa di coda di rospo, o il fegato di rana pescatrice», racconta, «erano cose a cui il cliente si apprestava con riserva, ma ciò che lo avvicinava era il profumo, l'assaggio».

Se si decide di lavorare con una cucina così sperimentale e con ingredienti che potrebbero provocare un primo «disgusto», inteso come «resistenza», allora il sapore deve convincere, deve, in qualche modo, risultare rassicurante.

«Quando ho iniziato pensai a come si conservava la carne prima dei frigoriferi», spiega lo chef Edoardo Tilli, del ristorante Podere Belvedere, una torre settecentesca a una ventina di chilometri da Firenze, celebre per la «maturazione estrema» e il lavoro su interiora e selvaggina. «Tenendo le giuste temperature e umidità, ho selezionato una tipologia di muffa che negli anni ha restituito prestazioni incredibili. Oltre a proteggere il prodotto perché antibatterica, rende i cibi più digeribili e più buoni».

L'idea di carne maturata, con presenza di «muffa», potrebbe suscitare resistenza nei palati meno temerari, ma il fine ultimo resta l'eccellenza gustativa.

Tutto è relativo

Se in Giappone è normale mangiare lo shirako, un piatto a base di sperma di pesce, in Italia c'è chi si scandalizza per il quinto quarto, ancor di più se di selvaggina o di pesce. «Nella cultura vietnamita l'insetto, che per noi può essere disgustoso, fa parte della quotidianità», osserva Cedroni, «è ciò che non hai mai assaggiato che spaventa, è questione di dove nasci e di che ingredienti sei abituato a mangiare da piccolo».

Per lo chef Tilli l'esemplificazione per eccellenza della relatività del gusto è il natto, alimento tradizionale giapponese prodotto attraverso la fermentazione della soia. Ha una texture viscida e filante, un profumo pungente e un sapore deciso.

«La maggior parte degli occidentali lo considera disgustoso, ma i giapponesi ne sono golosi, lo mangiano a colazione. Questa è la relatività».

E a proposito di sfidare i palati dei commensali, una delle tappe del menù Se carne, questa carne , il percorso più estremo di Podere Belvedere, ha tra i suoi ingredienti principali il natto.

Viene cotto in un brodo di intestino di maiale e accostato a del caglio, che fermenta naturalmente nello stomaco del capretto. «Per me questo è un piatto che ha una ricchezza gustativa e una pienezza incredibili. Certo, può essere disgustoso», ammette Tilli.

Comunicare per preparare

Uno degli ultimi post su Instagram della Trattoria Da Lucio è la foto di una vescica di ombrina, bianca con le venature rosa acceso. Lo chef riminese Jacopo Ticchi, che con la sua cucina porta in tavola un «mare totale», senza sconti nei sapori o nella materia prima, non ha dubbi: «Noi comunichiamo in modo molto forte, anche durante la prenotazione, quando chiediamo al cliente che rapporto ha con il quinto quarto di pesce, per giocare un po' in anticipo».

Nel cercare di spingere il commensale oltre i limiti di ciò a cui è abituato, il racconto assume un ruolo fondamentale, non solo per spiegare l'idea, ma perché le creazioni dello chef non risultano mai mere provocazioni.

«Per me la comunicazione social», spiega lo chef Tilli, «oltre a essere un modo per mostrare come metto in pratica le mie idee, è anche una maniera per selezionare i clienti. Io faccio il mio lavoro con devozione e se a uno non piace, è bene che non venga».

Anche per lo chef toscano, come per Ticchi, la prenotazione è un momento importante, un'occasione per preparare il cliente all'esperienza.

«Quando qualcuno prenota il mio menù più estremo, “se carne questa carne”, controllo sempre che non sia la prima volta che viene da noi, altrimenti gli consiglio di fare prima il menù “cellula”».

Mostrare, non nascondere

Una volta giunti in sala, il racconto si fa più rassicurante, anche grazie all'esposizione della materia prima. «Noi abbiamo sempre lavorato attraverso il nostro vassoio, che viene mostrato con l'obiettivo di abbattere la barriera del dubbio, incuriosire e insieme rassicurare il cliente», racconta Ticchi. Anche per Edoardo Tilli l'immagine è importante: «Io vado in sala con l'animale intero, su cui si vedono anche le muffe, poi lo spello, faccio il pezzo di carne, faccio sentire i profumi e solo dopo vado alla griglia».

Ma non è sempre stato così, o almeno, non per tutti. E se chef Moreno Cedroni ammette di aver servito, due anni fa, un ceviche di ricciola a cui veniva aggiunta una formica, narrata però come un più rassicurante e generico “acido formico”, per Jacopo Ticchi all'inizio il gioco dello svelamento faceva parte del rito della Trattoria da Lucio. «Era il 2019», ricorda, «servivo un'insalata di trippa di pesce senza dire niente, come benvenuto, la gente la mangiava e immaginava dei calamari, o qualcosa del genere. Stessa cosa con il pesce frollato. Lo servivo e solo dopo spiegavo cos'era. Le celle di maturazione erano nascoste e capitava che portassi i clienti a vederle dopo che avevano mangiato. È il loro stupore che mi ha dato la forza di iniziare a comunicarle».

Disturbare (ma non troppo)

A nessuno chef, in Italia, verrebbe mai in mente di servire del finto cervello di ratto e nessuno sfiderebbe il cliente al grido di “Vanguardia, o morir ”.

Eppure ci sono espressioni gastronomiche più sfidanti di altre, piatti che possono incontrare più resistenza nel cliente. Sedersi a un tavolo della Trattoria da Lucio per assaggiare la zuppa di occhi di pesce, forse, non è per tutti.

Così come non lo è gustare le tagliatelle Paglia e Fieno della Madonnina del Pescatore, realizzate con farina di spine di rombo e alghe.

Ma non si tratta di provocare, o stupire. Il confine tra ciò che è accettabile e ciò che è «disgustoso» è più sottile di quanto si pensi. Il gusto è un linguaggio e, come racconto, richiede ascolto, comprensione ed educazione.

Forse in Italia non esiste (ancora) una cucina che punta a disturbare apertamente il cliente, ma esiste una cucina che sfida, incuriosisce e accompagna. Perché, alla fine, il vero ingrediente rivoluzionario è la capacità di cambiare prospettiva.


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