C’è una spiegazione dietro all’odio dei bambini per le verdure ed è tutt’altro che scontata: ha origine antiche ed è frutto di millenni di selezione naturale. Ma, intorno ai vent’anni, qualcosa cambia ed è allora che cominciamo ad apprezzare dei gusti che prima odiavamo
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani e in edicola
In ogni suo libro, Quino da anni ci sta dimostrando che i bambini sono depositari della saggezza.
«Quello che è triste per il mondo è che man mano che crescono perdono l’uso della ragione, a scuola dimenticano quello che sapevano alla nascita, si puliscono i denti, si tagliano le unghie e alla fine, diventati adulti miserevoli, non affogano in un bicchiere d’acqua ma in un piatto di minestra», scriveva Gabriel Garcia Marquez nel 1992 sull’opera del fumettista argentino che ha dato vita alla mitica personaggia Mafalda, bambina insaziabile e contestataria. Mafalda ha sei anni e odia la minestra.
Si interessa dei problemi del mondo, come l’allora in corso guerra del Vietnam, la fame o il razzismo e martella gli adulti con domande difficili a cui non sanno rispondere.
Perché Mafalda odia la minestra che i genitori le propinano? Perché quasi ogni bambino odia la minestra, disgustato dai vegetali galleggianti, dalla consistenza fibrosa, dall’aroma di brodaglia.
Ecco che allora la minestra in Mafalda è simbolo di «adultità», metafora, nelle parole di Quino «di tutto quello che si vuole imporre con la forza, delle cose alle quali vuole costringerti il potere, di ciò che viene imposto a un bambino, a un cittadino e a un popolo».
Da questa imposizione trae origine la domanda della bambina:
«Perché devo mangiare la minestra?»
«Perché così diventerai grande come me e la mamma», le risponde il padre.
«Così, oltre alla minestra, anche questo!» ribatte lei sconsolata.
Ma la minestra non è solo il simbolo del diventare grandi: per molto tempo è stato l’alimento povero per antonomasia, un cibo contadino realizzato bollendo insieme quel che si aveva a disposizione in un grande pentolone pieno d’acqua.
Veniva contrapposta alla zuppa, la versione cucinata nelle case agiate.
L’estetica nuova
Oggi minestre e zuppe hanno tutta una loro estetica fascinosa, si veda per esempio il profilo Instagram @sssssoupsssss, che ai suoi quasi 70mila follower propone foto di zuppe in primo luogo bellissime da vedere e chissà se altrettanto buone da mangiare.
Ma si sa che per quanto riguarda il cibo l’aspetto è importantissimo nella previsione del sapore: le pietanze belle ci sembrano più buone di quelle brutte.
È anche questo il motivo per cui i bambini tendono a rifiutare le verdure: il loro aspetto, il loro colore. Perché? Le ragioni sono evolutive e anche piuttosto interessanti.
Come ogni spiegazione evoluzionistica anche quella del disgusto per il mondo dei vegetali da parte dei cuccioli di uomini ci ricorda una cosa importante che tendiamo a dimenticarci, presi come siamo dalla complessità dei nostri pensieri, sovrapensieri, retropensieri: siamo, anche noi, animali che cercano di sopravvivere.
L’odio per l’amaro salva la vita
I nostri antenati vivevano circondati da piante di ogni tipo, molte delle quali tossiche o velenose.
Pare quindi che gli esseri umani abbiano sviluppato un disgusto difensivo per il sapore amaro.
Si tratta di selezione di geni favorevoli alla sopravvivenza: gli esemplari di uomini che provavano più disgusto per alcuni vegetali avevano più probabilità di sopravvivere, e così, come insegna Darwin, il gene si è consolidato e tramandato, a discapito di chi assaggiava allegramente bacche e vegetali, rimanendoci secco. I bambini hanno un’avversione più forte per i sapori amari perché devono ancora imparare quali piante siano pericolose e quali no.
Per questo motivo preferiscono istintivamente cibi dal colore chiaro e dalla consistenza croccante.
Ma perché anche i bambini più riottosi verso il mondo vegetale, una volta cresciuti, iniziano ad apprezzare i broccoli e la cicoria, rinnegando tutto quello in cui hanno creduto durante l’infanzia?
Pare che verso i vent’anni perdiamo una parte dei recettori che ci fanno percepire i sapori in modo così intenso da bambini, e per questo motivo alimenti come le verdure, che prima ci creavano disgusto, iniziano a piacerci. Detto in parole semplici, diventiamo sempre meno sensibili al sapore amaro, fenomeno che spiega anche perché a un certo punto della vita iniziamo ad amare il caffè.
La paura del nuovo
Ma l’amarezza non è l’unico fattore dietro al disgusto. C’entrano anche la consistenza fibrosa e quella che gli scienziati chiamano neofobia: la paura del nuovo.
Temere l’ignoto, all’inizio, ci salva la vita.
Ma cosa succede quando, come temeva Mafalda, diventiamo grandi? Cosa si nasconde dietro a questa inevitabile disgrazia? Che non solo iniziano a piacerci le verdure, ma ci costruiamo sopra tantissime cose.
Per esempio, inizia a sembrarci divertente un’attività come l’orto in tutte le sue forme: non solo l’orto in campagna ma anche quello urbano, quello condiviso, quello sul terrazzino dell’appartamento nella città inquinata.
Iniziamo a interessarci al foraging, ovvero l’attività di andare per campi e boschi alla ricerca di erbe spontanee, licheni, bacche e qualunque cosa offra la natura e sia commestibile.
Sulle verdure costruiamo tutta un’estetica e un’etica della salubrità, del gusto, della leggerezza e della riscoperta del selvaggio e del naturale, dimensioni che per un bambino possono essere esplorate attraverso un’attività molto più semplice: il gioco.
Basta giocare in un prato, in un bosco, in un giardino, sporcarsi le mani di terra, arrampicarsi sui rami più forti, sbucciarsi le ginocchia e prendere coscienza del sangue che affiora e che dunque ci scorre nel corpo.
Quello che noi chiediamo alla verdura, insomma, un bambino lo trova senza bisogno di mangiarla.
E certo, noi le chiediamo anche di farci bene, di farci stare in salute, di fornirci le vitamine e le fibre di cui abbiamo bisogno, ma il cibo non è mai solo nutrimento: è sempre anche un fatto culturale, un fatto estetico, qualcosa su cui riversiamo e proiettiamo la nostra idea di mondo.
E noi, da grandi, visto che non giochiamo più, riempiamo il sabato mattina con le passeggiate al mercato ortofrutticolo, a scegliere gli esemplari migliori di melanzane.
Intorno alle verdure costruiamo abitudini, narrazioni, ricette raffinate. Insegniamo ai bambini che non si dice «che schifo» di niente, perché non sta bene e il cibo è sacro.
Addomesticare l’ignoto
Ma il disgusto naturale dei bambini verso le verdure ci insegna un paio di cose: ci vuole tempo per costruire la fiducia che qualcosa di nuovo non ci farà male, non attenterà alla nostra vita avvelenandoci.
La fiducia si costruisce per tentativi e forse sono più efficaci quelli spontanei di quelli obbligati.
«Mangia la minestra» è un mantra genitoriale che non sortisce alcun effetto finché il bambino non è pronto ad apprezzare consistenze e sapori complessi, non immediati.
C’è un tempo per la pasta, per il gelato, per il pollo arrosto, e c’è un tempo per i broccoli.
E non è solo una questione di cibo. Crescere forse è proprio questo: addomesticare l’ignoto, riconoscere nel sapore amaro delle erbe una fonte di vita e non un pericolo di morte. E da lì costruire ricette e narrazioni, estetizzazioni e diete, trasformando qualcosa di molto semplice e naturale – gli alimenti che ci dà la terra – in qualcosa di molto complesso e culturale: cibo.
© Riproduzione riservata