Con il cibo ho sempre avuto un rapporto idilliaco, ma quest’estate ho appreso che l’idillio è sovente un’illusione. Tempo addietro, per esempio, scrivevo che in famiglia avevo imparato che il cibo è un atto d’amore. Sono passati sei anni e ho concluso che quell’affermazione era falsa, e dunque giusta per un romanzo. La mia famiglia era spesso un campo di battaglia e il cibo un momento di requie. Prepararlo e consumarlo per qualche motivo ci calmava. Questa funzione calmante e dimostrativa – dimostrativa di cura e attenzione, immagino – si è poi mantenuta anche nella mia vita autonoma.

Per lungo tempo ho cucinato molto, per me e per gli altri. Nessuna preferenza o limitazione alimentare mi metteva in difficoltà. Era una sfida, e vincerla un altro atto dimostrativo, a quel punto di potere, suppongo, specie quando si trattava di nutrire i difficili e gli inappetenti. Allo stato attuale delle cose sono invece mesi che rifuggo i fornelli quanto più possibile, perseguendo una sorta di semplificazione alimentare. Mi ero detta che si trattava di una questione di ottimizzazione, ché il tempo è prezioso e devo dedicarlo ad altro. Ma di tempo ne spreco ancora una quantità improbabile, quasi tutto nel sovrappensiero, e alla semplificazione del regime alimentare ha corrisposto una parziale trasformazione del corpo. Forse era quella che cercavo. Più ancora, forse cercavo la frattura che mi separasse dalla tavola di famiglia e dal cibo palliativo, curativo e ricattatore. I trentasei anni, del resto, mi sembrano un ottimo momento per una crisi adolescenziale.

Guardare le altre

C’è stato un tempo in cui in palestra guardavo le ragazze affezionate dei pesi. Non si trattava di vere e proprie bodybuilder. Avevano corpi ancora distintamente associabili alla forma che per automatismo diciamo “di femmina”, ma già muscolosi al punto giusto da rievocare qualcosa del maschio. Sognavo quei corpi fatti di spalle grosse, braccia segnate anche a riposo, seni ritratti, cosce solide. Anni fa un tizio mi ha raccontò di quando fece arrabbiare la ex fidanzata e questa, agonista di kick boxing, gli procurò duemila euro di danni alla portiera dell’auto prendendola a pedate. Ricordo di aver simulato empatia – oh, poverino – mentre con occhi luccicanti pensavo: «amica, vorrei essere te». Ma le ragazze dei pesi e l’agonista di kick boxing si sono costruite con fatica e dedizione, mentre io quel tipo di forza la sognavo per i motivi sbagliati, o quantomeno per motivi non virtuosi.

Mi sentivo invecchiare e sapendo che un corpo di donna invecchiato, in questo mondo, non vale più niente, desideravo iniziare da subito i lavori di dismissione della mia forma giovane – delicata, femminile, in virtù di questo desiderabile. Tuttavia ho sempre avuto il limite della pigrizia, visualizzo molto e finisco col fare troppo poco. Al momento, per dire, l’unica attività sportiva che riesco a praticare con sensata regolarità è l’acquagym, ovvero la disciplina anziana e poco competitiva fatta apposta per me. A disposizione ci sono due trainer, una è equiparabile a una dolcissima animatrice della proloco, l’altra è il sergente maggiore Hartman e ha la capacità di farti percepire che stai sudando anche se sei già immersa di tuo in un liquido. Scelgo l’una o l’altra a seconda di quanto, nel giorno dato, mi sento più o meno indirizzata verso un’ottica auto-punitiva. 

Al tempo in cui osservavo con ammirazione le ragazze dei pesi, ricordo che tra le varie cose detestavo il mio seno, una dignitosa seconda che con un po’ di impegno può farsi notare, ma che francamente desideravo solo nascondere insieme a tutto il resto. In Parla, mia paura (Einaudi Stile Libero, 2017) Simona Vinci narra, tra le molte e preziose cose, il percorso che l’ha portata a eseguire una mastoplastica. Lei, racconta, aveva una esuberante terza mai desiderata e mai amata. Scrive «Io l’avevo sempre odiato, il mio seno (…) L’ho odiato per tutta la vita fino a che, a trentaquattro anni, dopo una dieta che mi aveva fatto perdere quasi quindici chili nel giro di un anno, non mi ritrovai con un seno da vecchia, inguardabile». E ancora «Avevo sempre sognato un corpo che corrispondesse al mio carattere, quello di un’amazzone: slanciato, asciutto e dal petto appena accennato. Una guerriera e non una madre, cosa che oltretutto non ero e non desideravo essere». Vinci vuole tagliare, recidere, e viene invece accompagnata in un percorso di accettazione della propria forma che chiama «l’anno del corpo immaginato».

La mia storia è diversa, da adolescente che non cresceva mai un corpo da femmina adulta l’ho a lungo sognato e salutato con sollievo, eppure è arrivato il momento in cui ho provato repulsione. A posteriori ho cercato di sondare le ragioni della mia volontà di nascondimento e credo di averci capito poco, ma almeno ho una serie di note a margine. C’è la moralità introiettata, che ha preso a farsi spazio a piccoli passi un anno dopo l’altro da quando sono entrata nel mondo del lavoro, l’impressione che farsi notare sia del tutto sconsigliabile perché non sai mai cosa può succedere o cosa si possa pensare di te. C’è l’ipotesi che staccarsi dal proprio corpo sia la più pratica, la più virtuosa, nonché la meno dannosa delle soluzioni possibili.

Le chiusure e la virtualità in questo sono state peraltro di grande aiuto. Sembravano un segnale, il richiamo ultimo a evolvere verso la liberazione dagli istinti e da tutta la confusione che generano. Il proposito non troppo conscio di diventare una specie di cyber-santa e guadagnarmi l’eternità. Là, dove il punto non è né essere davvero santa né tantomeno l’eternità – entrambe cose che costano troppa fatica –, bensì l’idea di riuscire ad abitare con agio l’intangibile, onde non soffrire più delle inevitabili falle e brutture del tangibile. Per un po’ ci ho provato. E dati alla mano ora vi dico che se a qualcun altro là fuori venisse in mente di tentare questo esperimento, faccia pure, ma consideri che a un certo punto il tangibile piomba addosso tutto insieme, ed è più difficile da processare.

Il tangibile

Facciamo molti e necessari discorsi sull’autodeterminazione, ma resta invariato che il femminismo, almeno fino alla mia generazione, è anche una lotta all’ultimo sangue con il desiderio dello sguardo altrui. Abbiamo amato Fleabag per questo, perché le protagoniste ci parlavano, crude e dirette, affermando di essere pessime femministe. Accadeva quando la relatrice di una conferenza chiedeva alla sua platea: «Chi rinuncerebbe a cinque anni di vita per il cosiddetto corpo perfetto?», e loro alzavano energicamente la mano di fronte a un centinaio di compagne imbarazzate.

Non rinuncerei a cinque anni di vita, grazie al cielo oltre che pigra sono pure ipocondriaca il giusto, ma a cinque chili sì. Volevo fare la cyber-santa, ma a un certo punto del mio processo di nascondimento questo corpo è stato complimentato, si è ricordato che esiste l’occhio di chi guarda e ha iniziato a volere di più da sé stesso senza neanche chiedermi un parere.

In un’estate di cui continuo a parlare come se invece che un tempo fosse un luogo di cui non trovo la porta di uscita, quei cinque chili li ho persi e sembrano non tornare. Non è un cambiamento che ho cercato contando le calorie, credo di averli bruciati con un misto di languida inappetenza ed emozioni forti, tipo l’organizzazione di un trasloco ad agosto. Sta di fatto che un giorno mi sono pesata ed ero scesa a quarantasei. Un chilo in meno e torno al liceo, ho pensato. Ma io al liceo non ci voglio tornare neanche per il tempo della ricreazione, mi sono detta.

Sono venute altre domande, perché prima volevo una forma androgina che dimostrasse forza fisica e poi ho preso a volerne un’altra di molto diversa? Perché controllo le rughe di espressione? Perché voglio una pelle splendida? Perché bevo tanta acqua? Non sono una fan della cosmetica, e ciononostante il problema dei peli incarniti dopo la ceretta mi toglie il sonno e ho una collezione di creme inspiegabile, anzi spiegabilissima, ché dobbiamo essere sode ma morbide come seta, sorelle.

Sempre in questa escape room chiamata estate, ho trovato rifugio dal culto del corpo buttandomi sul tabagismo. Se l’occhio di chi guarda ci vuole di bella presenza, allora magari posso demolirmi dall’interno fumando una media di dodici sigarette al giorno invece che una media di cinque a settimana come, prima, era la norma. Mi dicevo fumatrice occasionale e fortunella immune alla dipendenza. E io lo so che il tabagismo è uno sport serio, e chi lo pratica da decenni al ritmo di due pacchetti al giorno sorriderà pensando piccina, non sai di cosa stai parlando. Ma so anche che per la prima volta nella vita ho gli incisivi inferiori macchiati di nicotina, che l’ho fatto da sola e l’ho fatto in un tempo breve.

«Costruire per distruggere, una lunghissima rincorsa e finalmente poi poter morire», cantavano gli Afterhours. Non è solo una questione personale, mi guardo intorno e ancora una volta ho l’impressione che siamo in più di una manciata ad arginare i crolli da un lato e prenderci a picconate dall’altro. Soprattutto, a non sapere esattamente quale forma vogliamo assumere.

Corpo maschile

Quindi. Sono alta circa un metro e sessantaquattro, tre giorni fa pesavo quarantasei chili, oggi invece ne peso quarantasette. Tre giorni fa ero a una grigliata e un’amica mi ha indicato un panino dicendo: «Adesso ne mangi uno, e poi ne mangi un altro». L’ho fatto con piacere, senza opporre alcuna resistenza, innanzitutto perché avevo genuinamente appetito, e poi perché mi piace molto quando qualcuno cerca di risolvere i problemi al posto mio.

Eppure quando passo davanti allo specchio, vergognandomi di un pensiero così frivolo e forse poco sano, mi piaccio più di quanto mi sia mai piaciuta in vita. Non so se voglio tornare indietro, ma neanche il mito del corpo forte si è dissolto del tutto, e non si è dissolto del tutto per un motivo preciso. Più di ogni cosa, ho in fondo concluso, vorrei essere un maschio etero di mezza età.

Lo diceva Hannah Gadsby nella sua stand up comedy Nanette, parlando di quando capita che la accolgano con l’appellativo “Sir”. Diceva che di fronte all’equivoco queste persone sprofondano poi nell’imbarazzo scusandosi mille volte, ma che a suo avviso non dovrebbero scusarsi: «Mi piace quando mi scambiano per un uomo, perché per un attimo la vita diventa dannatamente più facile, sono all’apice della normalità, Re della specie umana: sono un maschio bianco etero». Anche in questo caso le nostre storie sono totalmente diverse ma le volte in cui, in questi mesi, ho pensato «voglio aggirarmi per il mondo sentendomi al sicuro, senza pensare alle conseguenze delle scelte più banali e senza neanche il cruccio di utilizzare una crema idratante per le mani», si sono sprecate.

Equilibri precari

Nel suo pezzo di recente pubblicazione Jonathan Bazzi ha narrato in modo rigoroso la sua (ma sarà veramente sua? Ma poi è veramente importante appurarlo?) volontà di avere un corpo sottile, il più sottile possibile. Questo racconto ha scatenato il putiferio, mi pare, per la colpa pura e semplice di aver esplicitato la contraddizione che alberga in tutti i nostri cuori matti, il fatto che tra quel che ci fa bene e quel che desideriamo quasi sempre c’è una discrepanza che va dall’essere minima all’essere abissale. Non vale solo per la forma fisica, vale per qualsiasi aspetto delle nostre esistenze.

Il diniego feroce che è esploso non fa che confermare quanto struggimento generi la distanza tra ciò che siamo, ciò che desideriamo essere, ciò che desideriamo che la gente – la società, il mondo intero – pensi che siamo. Tra i commenti, quelli che più mi hanno colpita suonavano grossomodo così: «Quel che lui ha pensato l’ho pensato anch’io ma l’ho tenuto per me». Volevo correre ad abbracciare queste persone una a una e dire vi prego parlate e, entro i limiti del codice civile e penale, dite anche i brutti pensieri. Perché non farlo alla lunga fa un male cane.

L’estate, a ogni buon conto, prima o poi si degnerà di finire. Nel frattempo ho ricominciato a fare delle colazioni bilanciate a base di frutta e a calarmi senza alcuna pietà un etto di pasta a pranzo. È un ritorno spontaneo e un po’ malinconico, riprenderò un chilo, ne riprenderò due, tre, magari li riprenderò tutti e cinque. Mi guarderò ancora trovando un milione di difetti o magari diventerò una vera sportiva con le fasce muscolari segnate (ne dubito fortemente, mi sento stanca al solo pensiero).

So di non aver sfiorato nemmeno alla lontana uno stato patologico, e so che non è un merito. Negli anni, nella gestione dei piccoli e grandi momenti di stallo, la differenza l’ha sempre segnata una solida rete sociale fatta di persone pronte a dire: «Noi siamo qui». So anche che il supporto di chi hai intorno non sempre funziona e non sempre basta. Anche per questo, continuo a sentirmi più fortunata che brava.

Mi aiuta molto anche l’abitudine a non fuggire dalla crisi, la abito per quello che spero sia il tempo necessario, sto là finché mi pare che non ci sia più niente da imparare. Sto riappropriandomi di alcune delle idee a me più care. Come quella del corpo che non può restare fermo, muta continuamente consumandosi fino al termine della corsa. Come il fatto che noi pensiamo di rincorrere la bellezza estetica quando invece rincorriamo una specifica forma di luce che ci appartiene solo in momenti circoscritti, non per forza rari, ma circoscritti. Spesso accade in coincidenza con la chimica della felicità, che per fortuna non è sempre caricata al massimo, anche perché sono abbastanza sicura che questo si tradurrebbe in non pochi problemi di ordine pubblico.

L’equilibrio, in buona sostanza, è un miraggio impossibile. Abbiamo bisogno delle oscillazioni, delle crisi, delle zone di confine. L’altra cosa che Bazzi ci ha detto con grande chiarezza è infatti una questione di verità – quella che come già ci insegnava Caterina Caselli ci fa male, e quindi ci fa arrabbiare – ovvero che siamo tutti sul filo, nessuno ha un pulpito abbastanza solido, nessuno è mai abbastanza al sicuro, nessuno è mai abbastanza in salvo.

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