Sono qui da lunedì, e ogni volta che prendo un taxi, dopo i primi convenevoli, l’autista che incontro sostiene che per lui e i suoi colleghi nulla è cambiato. «Mi spiega che cos’è questo Eurovision?», mi ha detto l’ultimo. Eppure qui al Pala olimpico è tutto esaurito fino a sabato. Per l’esattezza, in questo palazzo di vetro e acciaio progettato da Arata Isozaki e Pier Paolo Maggiora per ospitare le olimpiadi invernali del 2006, possono starci dentro 15.500 persone. E i pass in vendita non si trovano più da mesi. L’altro giorno me lo ha confermato perfino Luciana Littizzetto: «Nessuno di quelli che conosco ha trovato i biglietti per accedere». E se lo dice lei, immaginiamo gli altri. Perfino l’assessore alla cultura di Milano, Tommaso Sacchi, raccontava che non si trovano gli hotel. È invitato qui per la finale di sabato ma non sa ancora dove alloggerà. Potrebbe chiedere una mano al tassista di prima, magari lui ha informazioni che a noi non risultano.

Tamponi e armadietti

Cornelia Jakobs canta Hold Me Closer (foto AP)

Agli accrediti stampa la fila è stata snella, complice il fatto che per raggiungerli abbiamo dovuto fare il giro del parco Valentino: «Da qui non si passa» è la frase mantra degli addetti ai lavori. Eurovision è un po’ Giochi senza frontiere ma anche Grey’s Anatomy. Noi italiani, rispetto agli altri giornalisti, siamo gli unici ad aver ricevuto trenta mascherine Ffp2 a testa, nei colori bianco e nero. E una scatola di chirurgiche, tanto per non farsi mancare niente.

L’ufficio accrediti è efficiente, rimane aperto fino a mezzanotte. Peccato che il laboratorio dei tamponi – obbligatori se si vuole accedere al palazzetto – chiuda alle 20. E così alcuni colleghi “blasonati”, per questo sfalsamento di orario, hanno perso la conferenza stampa dei conduttori e le prove della prima sera.

L’entrata della press room sembra un parco giochi. Ci sono perfino gli armadietti con le chiavi, come in palestra. Moroccan Oil è il main sponsor dell’evento e regala a ogni giornalista un ricco kit di prodotti, dentro a una borsa da viaggio. Due sono le mie riflessioni a caldo: la prima è che per me Eurovision può finire qui. La seconda è che il claim The sound of beauty non è poi così casuale.

Un po’ Europa unita, un po’ tinder

Qui, nell’area stampa, sono bandite le bottiglietta di plastica e a ogni angolo del palazzetto ci sono le boule d’acqua. Così mentre mi avvio al desk per ritirare il mio thermos personalizzato, il telefono fa uno strano bip. Dopo aver guardato a lungo il messaggio: «Shake your phone when you want connect to the person next to you», scopro che al mio accredito stampa corrisponde un codice QR, e se un giornalista o qualcuno della delegazione è interessato a reperire la mia “business card”, non deve far altro che “shakerare” il suo cellulare vicino al mio. E tac, il gioco è fatto: in un attimo la frase “colleghiamoci su Instagram” sembra già roba vecchia.

Lo ammetto, il mio primo pensiero è malsano: chissà sabato quante coppie saranno nate. Solo nella press room ci sono 40 tavoli, uno per ogni paese partecipante alla gara canora, con una ventina di giornalisti accreditati.

Per non parlare delle delegazioni dei paesi che partecipano all’evento. Sulla parola delegazione non ho le idee ben chiare, ma più o meno ci sono tutti i responsabili delle tv che devono rendere visibile l’evento nel loro paese. Insomma, solo tra gli intimi qui saremo duemila persone.

La massima autorità che si aggira da queste parti è Martin Osterdahl, il suo biglietto da visita è il più lungo di tutti: Eurovision Song Contest (Esc) Executive Supervisor European Broadcasting Union. Rappresenta l’istituzione nata oltre trent’anni fa, quando si parlava timidamente di Europa unita.

Ma per capire bene la filosofia dell’organizzazione, suona meglio la frase di un tecnico della Rai in attesa di una conferenza stampa. «Se qualcosa non funziona la colpa si dà all’Esc. Se fila tutto liscio, i complimenti si fanno alla Rai». Ridono tutti, ride anche Claudio Fasulo, produttore esecutivo dell’Eurovision e del Festival di Sanremo, il vero deus ex machina dell’organizzazione italiana.

I nostri eroi

Qui nell’area stampa passano tutti. Da Diodato a DarDust con Benny Benassi. Di sicuro non passeranno più Mahmood e Blanco. Li fermano tutti, non solo i giornalisti. Quando li ho incrociati erano fermi a scattare foto con le forze dell’ordine. Alla conferenza stampa coi giornalisti rispondono a monosillabi, alle altre delegazioni non stanno simpatici, «sembra che se la tirino un po’», mi dice in italiano una giornalista albanese. Questo potrebbe essere un problema visto che è una competizione e i voti arrivano dagli altri paesi. Le alleanze sono importanti.

«Sono stanchi, arrivano da un tour che li ha spremuti come limoni. Tutti li fermano per chiedere foto. Ma loro hanno bisogno di concentrazione, hanno un brano molto complicato da cantare», dice una fonte che lavora con loro, che non vuole essere citata.

Inoltre pare che dietro le quinte ci sia stato perfino qualche malcontento tra la delegazione italiana ed Esc. La nostra produzione aveva accettato di far pubblicare sui siti ufficiali di Eurovision e su Youtube sessanta secondi di videoclip dell’esibizione, e invece è stata postata interamente. Si tratta di diritti d’immagine che tutti gli artisti – e i loro avvocati – tutelano con le unghie.

Non solo. La produzione italiana ha lamentato anche alcuni ritardi nella prima serata, quando Mahmood e Blanco sono stati prelevati dall’albergo per andare al Pala olimpico solo alle 21.30. E sono stati fatti sedere sulle poltrone - inquadrabili dalle telecamere - solo alle 23. Per questo motivo Mika, Laura Pausini e Alessandro Cattelan li hanno potuti salutare solo alla fine.

Eppure ancora qualche spiraglio di speranza c’è. Se non di vincere – l’Ucraina è la favorita, non solo per solidarietà ma anche perché il duo, i Kalush, è forte – almeno di risultare più simpatici. Pare si siano creati dei piccoli sodalizi, prima con i Bulgari – la direzione artistica è di un italiano, Andrea Celi – che sono stati silurati alla prima sera.

Poi con gli austriaci e i norvegesi. Meno con i francesi con cui sembra non corra buon sangue già dall’anno scorso. Erano stati loro, infatti, a sostenere che i Maneskin avessero fatto uso di cocaina dopo essersi esibiti. Ero a Rotterdam quando il corrispondente francese di Paris Match ha fatto la domanda a Damiano.

Quell’astio “artistico” sembra sia arrivato fin qui a distanza di un anno. Complice una bottiglietta d’acqua tirata per sbaglio due giorni fa da Blanco nel camerino dei francesi. «È stato un gioco», minimizza un collaboratore della delegazione. E aggiunge: «Tanto non ci voterebbero comunque».

Prove d’abito

Laura Pausini, al centro, Mika, a sinistra, e Alessandro Cattelan

Chi crede che a Torino la vita notturna sia più vivace di quella sanremese si sbaglia. Blanco e Mahmood vivono chiusi al Golden palace quando non sono a fare le prove. E non bevono alcol per non affaticarsi ulteriormente. Qualcuno parla di una misteriosa festa a sorpresa sabato sera alla Reggia di Venarla, ma dato l’umore dei due artisti, è più probabile che entrambi fuggano a casa.

Ha scelto la privacy Laura Pausini, che ha affittato una villa in zona Crocetta. Anche per agevolare le prove dei suoi cambi d’abito: la prima sera ha indossato Valentino, stasera indosserà Alberta Ferretti e sabato Versace.

Mika è molto impegnato con le prove visto che sabato sera farà uno show che, testuali parole degli addetti ai lavori, lascerà senza fiato. Al punto da non farsi offuscare dall’arrivo degli attesissimi Maneskin, vincitori dell’anno scorso. E dal Sole cinetico di Francesca Montinaro. Purtroppo la sua tecnologia ha avuto un guasto tecnico e verrà mostrato solo l’ultima sera.

Le votazioni

Per chi ancora si chiede come funzionino le votazioni, c’è un alone di mistero su chi, per l’Italia, dà il voto agli altri paesi. «Il nome verrà svelato lunedì», dice l’ufficio stampa.

Mi diverte però ricordare che l’anno scorso, mentre mi trovavo alla finale di Eurovision a Rotterdam, alle 22.30 già davo i nostri Maneskin per spacciati. L’Italia aveva ricevuto i voti solo da Slovenia, Croazia e Georgia.

Mentre i voti delle altre delegazioni – forse in accordo tra di loro, ma dico forse – erano stati spartiti tra Svizzera, Malta e Francia. Il voto popolare alla fine ha sbaragliato tutte le strategie, e sappiamo tutti com’è finita. Con buona pace di tutti, anche dei francesi.

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