Il film del Fabbricante di lacrime – adattamento del romanzo di grande successo di Erin Doom uscito su Netflix all’inizio di aprile – è un capolavoro, ma non secondo i criteri che useremmo di solito per valutare un film. Tocca affidarsi a un’altra scala di valori, forse quella che applicheremmo alla critica del letame fumante, se solo questa esistesse, ma bisogna riconoscergli il merito inequivocabile di aver toccato nuove vette di qualcosa, oltre il brutto, più verso l’assurdo.

In questi casi mi riesce difficile pensare che la bassa qualità, anche considerato un budget che immagino non fosse altrettanto infimo, non sia deliberata. È kitsch? È camp? È trash? Che etichetta si può dare a questa ora e quarantacinque di dialoghi senza senso e scene per cui il termine “cringe” sembra essere stato appositamente inventato? Forse The Room di Tommy Wiseau, considerato da molti il film più brutto mai realizzato (la sua storia è raccontata bene invece in un film molto carino, The Disaster Artist di James Franco) deve cominciare a temere per il suo primato. Fabbricante di lacrime se la gioca.

Impenitente

Lo so che sembro una giudicona antipatica (radical chic, direbbe qualcuno che non sa cosa significhi), ma ci tengo a dire che sono molto grata a Erin Doom per aver tenuto in vita l’editoria italiana in questi ultimi anni, e anche se non ho letto i suoi libri, perché sono semplicemente troppo vecchia per appassionarmi alle storie d’amore tra adolescenti tormentati, sono sicura che si meritasse di meglio.

Detto ciò Fabbricante di lacrime è un capolavoro perché non finge di essere niente di diverso da sé, è coraggioso e impenitente nelle sue sciatterie, sembra girato a colpi di “buona la prima” con un cast assemblato tra i parenti del produttore. Impossibile non pensare a Boris e a René Ferretti che urla «la qualità ci ha rotto il cazzo» e non rimanere ipnotizzati davanti a questo gioiello di bruttezza rara.

L’ho guardato senza sapere niente di niente (seppur immaginando che non fosse Quarto potere). Avevo una vaga idea che nel romanzo di Doom c’entrasse un orfanotrofio e che tutto girasse intorno a un amorazzo proibito, quest’ultimo un elemento che mi sarei sentita anche di indovinare al buio, essendo la premessa di qualsiasi saga romance di successo degli ultimi anni (Twilight, After, Cinquanta sfumature, che condividono anche trasposizioni cinematografiche terrificanti).

Troppo pigra (e, come abbiamo già stabilito, troppo vecchia) per leggere il libro, ma anche tormentata dall’impossibile bisogno di rimanere aggiornata sui consumi culturali di tutti, mi butto in queste due ore scarse di love story tra una protagonista femminile ingenua e delicatissima di nome Nica e il compagno di orfanotrofio insieme a cui, a sedici anni, Nica viene finalmente adottata.

Lui, come vuole la tradizione del genere, è un manzo ombroso che suona divinamente il pianoforte e le cui buone maniere lasciano un po’ a desiderare, e per l’intera durata del film continuo a non capire come si chiama, anche perché tutti gli attori, forse a loro volta confusi, sembrano pronunciarlo sempre in maniera diversa. Richard? Ridge? Orogel? Non è dato sapere. Questa è solo la prima delle tante domande che mi accompagneranno durante la visione e che ora passerò in rassegna nella speranza di sviscerare alcuni dubbi condivisi e risolverli insieme.

Le incongruenze

Prima di tutto: perché sussurrano? Nessuno in questo film parla a un tono di voce normale, in compenso alitano moltissimo costringendomi a notare l’inverosimiglianza di queste conversazioni in cui nessuno chiede mai: «eh?». Robe che in confronto Margherita Buy è una capannona.

E a proposito di verosimiglianza, è possibile che la malattia di Roger (che soffre di forti mal di testa ed è patologicamente inverso) dipenda dal fatto che è sempre a petto nudo? Si chiama “maglia della salute” per un motivo e qualcuno dovrebbe consigliargli di indossarla.

Interessante anche l’agile burocrazia con cui una coppia di quarantenni adotta due adolescenti, con una tale facilità che mentre stanno per andare via con Nica sentono Gigi al piano e decidono su due piedi di accattarsi anche lui, tipo 2 X 1. «Così Nica non si sente sola», spiega la sua nuova mamma, palesemente attratta dal minorenne figo al pianoforte e del tutto incurante che lui sia l’unica persona che Nica non vuole più vedere. Potevano mica prendere su la sua amica del cuore, se ci tenevano tanto a integrarla? Ma anche: sono stati fatti dei controlli adeguati su questi signori che vengono a fare shopping di ragazzini? Chi ha approvato la pratica dell’adozione?

E ancora: dove siamo? Quando siamo? E come ha fatto la produzione a non scritturare nemmeno un attore romano? Le incongruenze sono infinite, i dubbi si moltiplicano e basta, e io comincio a chiedermi se il malessere di Giorgio non abbia a che fare anche con le dimensioni della sua mandibola, chiaramente sovrasviluppata per un sedicenne. È bruxismo? Sarà per quello che gli viene l’emicrania? Si può risolvere con un bite?

Sogno lucido

Mi distraggo un attimo e inizia un processo contro la direttrice dell’orfanotrofio, ma intanto Ritalin è in ospedale, sempre con questo problema di salute immaginario. Nica bisbiglia delle cose in tribunale e si avventura in metafore azzardate (“lui stella, io cielo. Lui graffi, io cerotti”) e ripete che Mitchell è il suo fabbricante di lacrime, che all’inizio mi era sembrata una brutta cosa ma forse mi sono sbagliata, perché ora invece lo ama molto.

A questo proposito mi chiedo anche se Erin Doom abbia inserito una clausola nel contratto di cessione per ricevere le royalties ogni volta che qualcuno dice “fabbricante di lacrime”, di sicuro glielo auguro, perché alla fine l’effetto è tipo Mariah Carey sotto Natale.

Il film si tronca all’improvviso lasciandomi frastornata e insicura, come se non l’avessi visto davvero e me lo fossi immaginato durante un’esperienza un po’ tumultuosa con una sostanza psicotropa, un sogno lucido durante una pennica pomeridiana andata troppo per le lunghe. Non mi ricordo, non ho capito, non riavrò mai indietro questo tempo. Resta nell’aria solo un olezzo familiare, come quello dei campi concimati di fresco.
 

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