C’è una nuova stagione di cinema delle donne sulle donne che trova il suo filo rosso nella colpevolizzazione delle vittime, che viene dopo quello che hanno subito. Il mio nome è Nevenka di Icìar Bollaìn e La ragazza di ghiaccio di Veerle Baetens
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La vittima «non è del tutto innocente»: è il karma che oscenamente ricorre nei casi di abuso sessuale, l’abietta parola d’ordine di chi protegge i colpevoli.
C’è una nuova stagione di cinema delle donne sulle donne che proprio in questa colpevolizzazione del “dopo” trova il suo filo rosso. La prima violenza non basta. Occorre il fango sociale, il dito puntato, il discredito. I “casi eccellenti”, involontariamente e inevitabilmente, fanno testo. Causa l’impatto mediatico, nessuna di noi riesce a schiodarsi dal cervello gli argomenti usati da Beppe Grillo nella difesa del figlio. Scandalosi ma scandalosamente comuni, ordinari. È un veleno più subdolo e più persistente del tradizionale «se l’è cercata». E – attenzione – non è sempre e solo prerogativa della popolazione maschile.
Il mio nome è Nevenka di Icìar Bollaìn e La ragazza di ghiaccio di Veerle Baetens non sono film d’occasione. Non sono stati progettati per uscire in questa giornata, come le commedie romantiche per San Valentino. Ma è chiaro che mandarli oggi in sala ha un senso preciso. «Fa campagna», aggiunge voci alle voci, aiuta a riflettere lucidamente, senza retorica e senza proclami.
Il mio nome è Nevenka
Già sui nostri schermi dal 20 novembre con Exit Media, Il mio nome è Nevenka (Yo soy Nevenka) ricostruisce la storia della prima donna spagnola ad aver denunciato un politico, e a farlo condannare, per molestie sessuali sul lavoro. È un “caso simbolo”, che nel 2000 ha scosso la Spagna anticipando di quasi un ventennio l’onda del #MeToo. Ed è emblematico anche per l’altissimo prezzo pagato da Nevenka Fernàndez: ha vinto in tribunale, ma in patria non ha più trovato lavoro ed è stata costretta a emigrare. Oggi vive in Irlanda.
Fernàndez (Mireia Oriol nel film) ha 25 anni e un master in Economia quando si lascia convincere a candidarsi nelle liste del Partito Popolare nella sua città natale, Ponferrada, in Castiglia e Leòn. Riconfermato a furor di popolo, il potentissimo sindaco Ismael Alvarez (Urko Olazabal, attore premiato col Goya) la nomina in un battibaleno assessore alle Finanze.
A forza di adulazioni e di lacrime per la moglie malata, riesce a infilarsi nel suo letto. Quando però lei gli chiede di smetterla inizia il calvario: abusi, umiliazioni pubbliche, stalking, violenze psicologiche di ogni tipo. È una zona grigia difficile da dimostrare, che la precipita in una depressione devastante. Vorrebbe dimettersi, ma non le consentono di lasciare la giunta a testa alta, solo da colpevole.
Quando deciderà di rompere silenzio e omertà e di agire in sede giudiziaria – senza i soldi per pagarsi un legale – nessuno, né il suo partito né la sua famiglia, la sosterrà. Nessuno a parte Rosario Velasco, consigliera comunale del Psoe, in teoria sua avversaria politica. Scatta anzi, da parte del Pp, una campagna politica di diffamazione impressionante: la ragazza è «pazza» e «drogata». E col sindaco ci ha scopato, no?
Ci sono anche tante elettrici a schierarsi con Alvarez: «Nessuno mi molesta se non voglio. Nessuno!» «Una persona con strumenti culturali: come si fa a farsi molestare? E perché aspetta tanto a denunciarlo?». È il micidiale assunto che diventa bandiera: la vittima non è innocente.
Condannato in primo grado il 30 maggio 2002, l’intoccabile sindaco si dimette tra gli applausi del suo partito e perfino della moglie del premier di allora, José Maria Aznar: «Il suo gesto merita molto rispetto».
Dice la vera Nevenka, che l’anno scorso in Spagna e ora anche in Italia ha accompagnato il film: «Le molestie sono insidiose, destabilizzano, possono sembrare senza importanza se viste separate dal resto delle azioni che si verificano, ma sono una goccia continua che attacca la vittima su molti livelli. C’è un processo interiore devastante, mi sembrava di impazzire». Sono dinamiche sottili e implacabili che il film rende con rara efficacia, perché – cito la regista – «il molestatore scarica costantemente la responsabilità sulla vittima».
La ragazza di ghiaccio
L’età dei protagonisti – ragazzini tredicenni – rende ancora più urticante il primo film da regista di Veerle Baetens, l’attrice belga premiata agli European Film Awards del 2013 per lo struggente Alabama Monroe – Una storia d’amore di Felix Van Groeningen e partner di Fabrice Luchini nel più recente, delizioso La petite.
Preceduto da un doppio alloro al Sundance Film Festival – Premio Speciale della giuria e Miglior Attrice – questo La ragazza di ghiaccio (Het smelt) sarà in sala per tre giorni, dal 24 al 26 novembre, distribuito da Teodora. La storia di Eva è tratta dal bestseller di Lize Spit, finalista al Premio Strega europeo e pubblicato in Italia da e/o con il titolo Si scioglie.
Sul filo del romanzo, il film intreccia suspense e coming of age facendo gradualmente riaffiorare un fatto tremendo, lontano e taciuto. Eva (Charlotte De Bruyne), giovane insegnante di Bruxelles, un giorno riceve un invito. Nel paese della sua prima infanzia, Bovenmeer, nelle Fiandre, si celebra l’anniversario di un amico morto ragazzo e si inaugura una nuova macelleria.
Ma perché partendo si carica in macchina un enorme blocco di ghiaccio? Con quale remoto dolore ha deciso di fare i conti? A sbalordire sono i tre ragazzini protagonisti della memoria, davvero incredibili: Eva bambina (Rosa Marchant), Laurens (Matthijs Meertens), figlio della macellaia, e Pim (Anthony Vyt), il figlio del contadino.
Insieme sono “i tre moschettieri”, la banda inseparabile che è il rifugio da una famiglia devastata dall’alcol, dalla solitudine e da una femminilità artificiosa che sembra escluderla. La violenza esercitata su Eva è figlia di giochi infantili e rivalse crudeli. Ha più a vedere con la cultura sessista che con la sessualità vera e propria. È un esercizio di potere per interposta persona, di una brutalità raggelante.
Alla base c’è un indovinello che Pim, il capobanda, propone alle “prede” per farle spogliare. Ma è stata proprio Eva, emarginata e ferita, a fornirgli quell’esca. Su di lei puntualmente piovono quelle parole: «Non sei del tutto innocente». A pronunciarle è quella stessa figura materna che «ha sempre sognato di avere una figlia così». Ma che, guarda caso, è madre di un maschio.
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