Michele Bravi ha il coraggio dei vent’anni ma le sue parole sono rimaste a decantare in una storia decisamente più affollata della media dei suoi coetanei. Dopo il trionfo a X Factor e la partecipazione a Sanremo 2017 con Il diario degli errori, sono arrivati per lui gli anni del silenzio e del buio. Tre anni di corpo a corpo col giudizio altrui e i disturbi post-traumatici, disturbi nei quali è sprofondato dopo la tragedia che l’ha visto suo malgrado protagonista: nel 2018 nello scontro con l’auto guidata da Michele ha perso la vita una donna di cinquant’otto anni.

Sono seguiti procedimenti giudiziari e mediatici, che Michele ora si lascia alle spalle anche con un disco, La Geografia del Buio, dedicato proprio alla ricostruzione fenomenologica del trauma e alle presenze che l’hanno aiutato a rimettersi in piedi in quei mesi di dolore e confusione.

Con lui ho voluto riavvolgere il nastro temporale, parlando di infanzia e adolescenza, dell’amore per i suoi nonni e per la musica, dell’Umbria, prima odiata poi ritrovata, di coming out e di sfide della visibilità. Ma anche di salute mentale, del ragazzo che gli è stato accanto nei momenti più duri, e di Sanremo, dove, rifiutando le polemiche per l’esclusione dalla gara, duetterà con Arisa nella serata dedicata alle cover.

In giro non si trova molto sulla tua infanzia, non ti piace parlarne?

Vengo da un contesto di lavoratori estremamente pragmatici, a partire dai miei nonni che mi hanno cresciuto. La mia famiglia si è sempre spaventata rispetto all’esposizione. Loro mi hanno chiesto un minimo di accortezza, protezione. E lo capisco, io stesso ci messo un po’. È normale che persone che hanno un altro stile di vita si possano sentire aggredite nel vedere il proprio nome sui giornali o in tv.

Che bambino eri?

Molto solitario, proprio come da copione. Faticavo a trovare un canale per esprimermi. Una mia amica, la sensitiva del gruppo, mi dice sempre che i problemi che uno ha si ripercuotono sulla parte del corpo che rappresenta quel problema. Io avevo difficoltà a comunicare e da piccolo avevo sempre mal di gola, perdevo la voce. Sempre afono.

Con chi passavi il tempo?

Le uniche persone che entravano nel mio mondo erano i miei nonni, che hanno una storia di drammi familiari alle spalle. Forse anche per questo sapevano come interagire con le sensibilità diverse, pur essendo poi persone semplici, non istruite. Quando andavo alle elementari, mia nonna imparava a leggere e scrivere insieme a me. Ci mettevamo lì, io col mio quaderno, lei col suo blocchettino, e provavamo a fare le lettere.

La musica quando arriva?

Mia nonna aveva un piccolo mangianastri rosso in salotto vicino alle poltrone sulle quali loro, dopopranzo, facevano la pennichella. A me non veniva da dormire, lei allora mi metteva su una cassetta a caso. Poteva essere lo Zecchino d’oro, a volte, non so come, dato che mia nonna non conosceva nulla di musica pop, venivano fuori Fiorella Mannoia o Edith Piaf. Playlist del tutto schizofreniche, allucinate. Quella è stata una sorta di scintilla: la musica è diventata motivo di aggregazione e di attesa. Il fatto di aspettare qualcosa dal mondo e un linguaggio con cui arrivare agli altri.

Quando hai iniziato a cantare?

Non c’è un momento preciso. È stato qualcosa di continuo. Sicuramente però tutto parte da lì, dallo stereo rosso. Però a un certo punto ho smesso.

Motivo?

Mi era cambiata la voce. Con la pubertà ho avuto la muta vocale, ed è successo prima che crescesse il corpo. Il corpo piccolo e la voce già da adulto. Mi sono bloccato. Per un periodo infatti ho pensato di dedicarmi ad altro, dalla musica all’immagine. A sedici anni sono scappato a Hollywood, ero convinto che avrei fatto il regista. Ci sono rimasto sei mesi. Poi è tornata la musica.

I rapporti con la tua famiglia come sono stati?

Avevo questa tensione costante, volevo trovare un modo creativo per raccontare come vedevo le cose. Ero arrabbiato, e la frustrazione a quell’età ovviamente trova come primo bersaglio il nucleo familiare. Scappavo, tornavo. Per questo sono andato via di casa molto presto.

I tuoi genitori ti hanno lasciato libero?

Le persone a volte si scandalizzano che l’abbiano fatto. Io ora capisco che ho imparato lì a gestire la libertà, l’ho usata per capirmi. Se tutti prendono l’autostrada può essere che tu per arrivare allo stesso punto debba invece percorrere la strada di montagna: quella libertà mi è servita per capire che dovevo prendere la strada di montagna.

Sei cresciuto a Città di Castello, vicino Perugia. Che rapporto hai con la provincia?

All’inizio molto problematico. Non capivo cosa avesse da offrirmi, mi sembrava sterile, la vedevo come un isolamento, un allontanamento dal mondo. Durante gli anni della scuola mi tornava sempre l’immagine della fiumana dei Malavoglia che ti travolge. Credevo fosse impossibile uscire dal proprio contesto, la vivevo come una condanna.

Col tempo le cose sono cambiate?

Fino a un certo punto non ne parlavo, preferivo mettere il fuoco sul distacco, su quando me ne sono andato. Poi ho sviluppato una specie di orgoglio. L’ultimo album, ad esempio, è iniziato proprio in provincia. Succede sempre più spesso così: quando devo avviare un nuovo ciclo creativo, riprendo contatto con le persone della provincia. La provincia spesso è uno specchio che anticipa. Pensa alla vittoria di Trump di qualche anno fa: quando ci sono state le elezioni, nelle grandi città ha perso, il trionfo c’è stato in provincia. Non che io sia trumpiano, ma in provincia si muovono cose importanti, energie che poi plasmano il mondo. Nel bene e nel male.

Com’è oggi tornarci?

Mi immergo in un senso di familiarità, di appartenenza molto forte. Vivere lì significa costruirsi una nicchia, un proprio spazio. L’Umbria mi ispira e mi ricarica. Non so dare una ragione ma quell’aria, quella luce adesso la riconosco. Ho scoperto la nostalgia, la malinconia per quei luoghi.

Si fugge perché ci si sente separati dagli altri: in città va meglio?

La notorietà mi obbliga a confrontarmi col giudizio continuo degli altri. Se domani mi faccio i capelli blu non è che se sto in città mi nascondo di più: vengo comunque giudicato con le regole della provincia, perché il pubblico di massa a cui la mia musica si rivolge è anche molto quello della provincia. Poi in realtà al liceo a me piaceva anche giocare col giudizio degli altri, la cercavo apposta quella cosa, ho iniziato a sfruttarla, più o meno consciamente. Anche rischiando, nel senso che ovviamente a volte mi ha fatto soffrire.

In questo senso di separazione c’entra l’orientamento sessuale?

Chiaramente nei piccoli centri c’è un grado di sensibilità più basso. Venivo accolto bene, ma non c’erano i luoghi per me, le persone come me. Mi trovavo da solo. Anche per quello ho voluto andarmene. Quando cresci in un mondo che non ti somiglia, non sai se stai sbagliando tu o sta sbagliando il mondo, non sai se esiste un ragazzo che puoi amare. Per me andare via è stato soprattutto un discorso di possibilità.

Ora vivi a Milano. Come va?

Milano non è il paradiso. Non mi sento tanto più tranquillo ad andare in giro mano nella mano, a baciarmi con un ragazzo in Darsena. Lo sguardo del passante, anche quando non si spinge a commentare, c’è sempre. E lo sento. Chiaramente ci sono delle zone, Porta Venezia, via Lecco, ad esempio, in cui la comunità Lgbt è a casa: lì trovi gente che ha quella stessa storia di sguardi addosso.

In città ci sono posti in cui le differenze possono aggregarsi.

Esatto. Però la visione della provincia come luogo per forza retrogrado non la condivido: mio nonno aveva novant’anni quando ha conosciuto il mio ragazzo. Mi ha dato una pacca e ha detto: «Se vi volete bene io sto a posto». Ovvio che i problemi ci sono eccome, in provincia e altrove, ed è la ragione per cui bisogna battersi. Finché non saremo liberi di baciarci anche fuori dalle zone sicure la lotta non potrà dirsi conclusa.

Hai deciso di essere molto chiaro su chi sei, anche dal punto di vista affettivo e sessuale. Come ci sei arrivato?

C’è una questione che riguarda il mondo della musica. In altri ambiti creativi non c’è la stessa esasperata coesione tra vita e opera: se avessi potuto scegliere forse non mi sarei esposto così tanto. Sono molto timido. Ma le regole di quest’ambiente mi hanno in un certo senso costretto. Se Roberto Saviano scrive un romanzo su un personaggio gay, il giornalista non gli chiederà se lui è davvero gay, se io scrivo una canzone dedicata a un ragazzo, sì. Coi cantanti la dimensione immaginativa, finzionale, non viene accettata. Non potendo uscire da quest’aspettativa me la sono cucita addosso.

Il primo coming out pubblico l’hai fatto a Sanremo 2017.

Avevo ventun anni, ho raccontato che avevo una storia con un ragazzo perché all’interno della canzone c’era un aggettivo al maschile. Quando per la prima volta mi hanno chiesto: «È dedicata a una ragazza?», non me la sono sentita di mentire. La giornalista, Sara Faillaci, fu molto garbata e intelligente.

Reazioni?

Ci fu un’esposizione molto intensa: l’intervista è uscita e io sono andato in tendenza mondiale. Avevo solo detto che amavo un ragazzo, eppure ci sono state ripercussioni, anche nella mia vita privata. Persone della mia famiglia che non mi hanno più voluto vedere, contesti lavorativi che mi hanno chiuso le porte. Quindi, se prima mi vivevo le cose con naturalezza, poi ho iniziato a dire basta, sono un creativo, parliamo delle cose che faccio. Ma è un approccio impossibile.

Oggi che tipo di atteggiamento hai?

In questi anni sono successe cose che mi hanno insegnato a convivere con la mancanza di pudore. A ventun anni mi sono esposto per onestà, a ventisei mi espongo per volontà. Prima, se la domanda non arrivava, ero sollevato. Oggi, se non me lo chiedi, te ne parlo io. Perché il mondo è ancora inospitale.

Spesso nascono polemiche, anche all’interno della comunità Lgbt, sui personaggi noti che non si espongono.

Non si tiene mai conto che un personaggio ha la sua storia, i suoi problemi, la sua intimità che magari vuole difendere. E se non si sente pronto a dirlo, non è che il fatto che abbia tre canzoni in top five implica che la sua emotività debba essere stritolata.

Avverti delle pressioni in questo senso?

Mi capita di incontrare dei giornalisti, gay anche loro, che mi dicono: «Ah finalmente tu lo dici, gli altri tuoi colleghi si nascondono». Con un tono sprezzante, di cattiveria. Come se fosse un obbligo. Lì mi impunto: gli artisti sono persone, come lo sono avvocati, macellai.  

Il punto è la difficoltà nel riconoscersi nel mondo in cui si vive.

Tutti possono avere difficoltà. Io quello che dico è: chi si sente pronto, si esponga, perché può fare del bene. Chi non si sente pronto, non lo faccia. Perché bisogna anche prendersi cura di sé stessi, delle proprie relazioni. Io col senno di poi non so se ho fatto bene a farlo così presto: l’ho detto con ingenuità e mi è caduto addosso tanto. Adesso lo faccio e mi cade comunque addosso tanto, ma sono pronto.

Tiziano Ferro di recente ha parlato delle pressioni subite nell’ambiente discografico, del fatto che gli imponevano vestiti ritenuti più “maschili” di quelli che avrebbe voluto lui. C’è ancora un clima del genere?

Sono molto amico di Tiziano, ho iniziato la mia carriera con lui. Io ho la fortuna di vivere in un momento in cui tante cose sono già cambiate. Il dolore che ha incontrato Tiziano io non lo posso conoscere. Il fatto di essermi esposto non ha avuto variazioni sul pubblico, su altro sì, ma non sul pubblico. All’epoca di Tiziano la paura era: se lo dici poi perdi pubblico. Era un’epoca diversa, un’epoca che, anche grazie a gesti come il suo, in buona parte non esiste più. Non so quanto ne sia stato consapevole lui, ma la sua decisione di dirlo è stata anche molto altruistica.

Gli artisti oggi sono più liberi di decidere?

In parte sì, quantomeno in senso estetico. Oggi la fluidità di genere dà la possibilità di giocare molto di più: se io mi trucco in un’esibizione è accettato che sto giocando. Ovviamente questo non vale ovunque, parlo del mondo dello spettacolo, dove anzi a volte mi indispettisco, perché lo si fa senza rispetto verso la cultura che si sta citando. Se ne fa un uso sensazionalistico senza onorare le origini di quella cosa, anche se si è in buona fede.

E fuori dal mondo dello spettacolo?

I passi da fare restano tantissimi ed è per questo che mi espongo. Mi viene in mente il film uscito da poco con Justin Timberlake, la storia di un bambino che condivide un pezzo di vita con un ex detenuto. Questo bambino continua a guardare dei cartoni con le fate e gli dicono: «Scusa ma secondo te perché lì dentro non ci sono maschi?». Lui risponde: «Perché secondo me io posso essere il primo». Vorrei fosse questo il modo di affrontare le cose.

Ci sono dei rischi nella visibilità oggi?

Magari mi precludo una fetta di pubblico, ma allo stesso tempo dico: chi se ne frega. Non è vero che la musica unisce: la musica divide, tutta la creatività divide. Perché io devo andare a captare proprio la sensibilità a cui sto parlando, non si può essere trasversali. Io voglio quel pubblico lì, voglio quelli che la mia storia la sentono come la sento io.

Veniamo al tuo disco, La Geografia del Buio, che è un concept album dedicato a un periodo molto difficile della tua vita, ovvero ai mesi successivi all’incidente di cui tanto si è parlato.

È stato importante un libro: Diario di un dolore di Lewis, dedicato alla morte della moglie, all’elaborazione del lutto. Un libro che ho scoperto subito dopo aver scritto il disco ma in cui c’è tutto un capitolo finale su quella che io chiamo la “geografia del buio” e che Lewis chiama «orientamento dell’afflizione». In un passaggio molto bello, all’inizio, lui dice: «Io sto provando a nascondermi dal dolore in tutti i posti. Col mio lavoro, i miei amici, nel mondo esterno. C’è solo un luogo in cui non posso non sentire il dolore della tua mancanza, ed è il mio corpo».

Questo periodo ti ha lasciato qualcosa nello specifico?

La mia psicoterapeuta una volta mi ha detto: «Il tuo corpo ha una storia di dolore, dobbiamo passarci attraverso». Il fatto che il mio corpo potesse avere una storia è stata un’illuminazione. Io ho subìto uno strappo che ero ancora molto giovane e, da giovane, non avendo sperimentato ancora il decadimento fisico, è difficile che tu ti renda conto che il corpo si porta dietro le esperienze. Pensi che evolva, cresca verso il meglio. Invece il corpo ha una storia, che può attorcigliarsi. Nel mio caso il corpo ha preso il sopravvento, ha fermato tutto.

Quando te ne sei accorto?

Durante la lunga fase di elaborazione del trauma per un periodo sono andato a vivere in Spagna. Nonostante lì non sapessero nulla di me fu subito evidente a tutti che avevo qualcosa che non andava. Io che ero convinto che la mia storia, la mia evoluzione aleggiasse più o meno sopra la testa, nell’aria. Un alone fuori di me. Pensavo che il corpo non subisse mutazioni dal vissuto. Con lo strappo ho dovuto rivedere un po’ questa geografia.

Hai raccontato di crisi dissociative, alterazioni nella percezione, allucinazioni.

Il buio non l’ho sperimentato in modo intellettuale, la fase intellettuale è arrivata tanto dopo. All’inizio era proprio un freno fisico, materiale. E da lì non ne puoi uscire da solo. Non riuscivo più a parlare, non riuscivo più a muovermi. Non riuscivo più a vedere le cose come le vedevo prima. Sentivo e vedevo cose che non c’erano davvero. La terapia mi ha insegnato a mantenere un rapporto continuo col corpo, averne una percezione completa, puntuale. È un esercizio continuo, con la mia terapeuta lo chiamo l’esercizio dell’Esserci. È importante far sì che il corpo coincida il più possibile con la mente, o anima che dir si voglia. Un lavoro lungo.

Quando le cose hanno iniziato a trasformarsi?

La terapia si chiama Emdr e si basa sul movimento oculare. Aiuta a reintegrare i vissuti traumatici. Durante le sedute tu risenti le cose che sono successe. Ho avuto modo di confrontarmi con altre persone che si sono sottoposte alla stessa terapia per altri motivi. Ad esempio, una persona che aveva subìto delle violenze sessuali durante la terapia risentiva le sensazioni della violenza. E io pure, ho risentito tutto. Ricordi intrusivi, devastanti, che erano però latenti, e andavano invece esplorati.

La Geografia del Buio è però anche un disco d’amore verso il ragazzo che ti è stato accanto in quei mesi difficili.

È forse il mio più grande disco d’amore. Non credo potrò mai più dedicare in musica quest’intensità a qualcuno. Questo disco nasce da una serie di bigliettini che questo ragazzo, che ora vive dall’altra parte del mondo, mi lasciava in giro per casa. Uno di questi apre il disco, dice: «Parlare del futuro è una cosa pericolosa, non farlo mai».

Ti regalava anche molti libri, ho letto.

C’è tutto un legame con L’amore ai tempi del colera di Gabriel Marcía Márquez che lui mi regalò, dicendomi solo: «Leggilo». Non so quanto fosse consapevole il suo gesto, ma nel libro succedono tante cose che poi sono successe a noi. L’ultima canzone del disco si chiama Sette passi di distanza, e si rifà proprio a un passaggio del libro quando Márquez, raccontando questa storia d’amore tra due che si rincorrono, scrive che sono in due fusi orari diversi e aggiunge: «Non erano più a sette passi di distanza, erano in due giorni diversi». A noi è successo lo stesso.

Insomma è un disco in cui convivono due estremi.

È impossibile scrivere un disco, o un libro, un film sul dolore. Quando parli di dolore finisci sempre per parlare d’amore. Sempre Lewis dice: «Ho iniziato questo libro con una pretesa: quella di spiegare il dolore, documentarlo. In realtà mi accorgo che è impossibile. Non posso chiudere il racconto del dolore nello spazio di un libro. Perché il dolore non è uno stato, è un processo». Nell’album non ho raccontato il dolore, ho raccontato l’amore che mi ha aiutato a orientarmi in quel dolore.

Mantieni il bacio, tuo ultimo singolo, era stata presentata a Sanremo ma non è stata scelta. Giovedì sarai a Sanremo ad accompagnare Arisa nella serata delle cover. Come la vivi?

Guarda, a un certo punto nelle scorse settimane hanno iniziato a uscire paginette del tipo: «Michele Bravi si prende una rivincita», «Michele Bravi la spunta su Amadeus». Mettevano una specie di competizione. Quest’atmosfera mi ha spaventato, non era quello che volevo. Ho scritto ad Amadeus, gli ho mandato l’album.

Com’è andata?

Non ci eravamo mai conosciuti prima e lui è stato molto carino. Anche perché, lasciami dire una cosa: questo disco parla di una fase della mia vita in cui ho imparato ad accettare l’imprevedibile e di come l’unico modo per rimettersi in piedi sia praticare un’umanità costante. Se io dovessi provare risentimento verso una persona che si è trovata a fare un cast artistico, butterei all’aria tutto il senso di quello che ho passato e scritto. Poi l’album sta andando benissimo lo stesso, quindi davvero non c’era ragione.

Con Arisa canterete Quando di Pino Daniele.

Uno dei capolavori della nostra musica. E sarò con quella che è forse la voce più grande che abbiamo in Italia. Ogni volta che duetto con Arisa mi sento piccolissimo. La sua voce è così piena di aria, di racconto. Sono felice di essere a Sanremo, anche se solo come ospite, perché questo Festival è anche un simbolo del tentativo di andare avanti. Per la musica dal vivo, per i lavoratori dello spettacolo.

Inevitabilmente nelle interviste che ti hanno fatto finora si è parlato molto del passato: come vai ora invece verso il futuro?

Citando sempre lo stesso bigliettino di prima ti dico: «Parlare del futuro è una cosa pericolosissima». Soprattutto in questo momento. Umanamente non lo so, professionalmente ho diversi progetti. Voglio tornare presto sul palco, mi manca tanto. Ora abbiamo annunciato un tour che dovrebbe partire a novembre con la prima data a Parma, e che ovviamente è soprattutto una promessa che voglio fare al pubblico. Comprare un biglietto oggi, di qualsiasi spettacolo, è un gesto di fiducia e di speranza verso la ricostruzione della normalità.


Michele Bravi è autore del suo nuovo album La geografia del Buio

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