La guerra in Ucraina ha rimesso in gioco preoccupazioni che sino a qualche anno fa in Europa sembravano sopite, preoccupazioni che l’arte della prima metà del XX secolo ha fortemente manifestato prima, durante e dopo i conflitti.

Contrariamente agli espressionisti o agli artisti della Nuova Oggettività, che negli anni Venti e Trenta hanno mantenuto nelle loro rappresentazioni un’impronta realistica, i surrealisti, guardando alle teorie di Freud, hanno pensato di poter attingere all’inconscio nella convinzione che i metodi razionali non erano adeguati per descrivere il mondo intorno a noi. Le azioni umane provengono infatti da un sottosuolo inesplorato e nebuloso e la razionalità rappresenta un tentativo, talora goffo, di spiegare la realtà in base a cause ed effetti.     

Ernst il visionario

Tra i surrealisti che hanno dato immagine al terribile volto della guerra e del male, Max Ernst è stato uno dei più visionari. Il suo dipinto L’ange du foyer (L’angelo del focolare, 1937), adesso esposto a Milano a Palazzo Reale nell’ampia mostra retrospettiva a lui dedicata (fino al 26 febbraio, catalogo Electa) a cura di Martina Mazzotta e Jürgen Pech, ne è una testimonianza pregnante. Le molte opere esposte, accompagnate da un rigoroso apparato scientifico e da documenti, affrontano i temi che hanno caratterizzato la produzione dell’artista, inserita nel contesto storico e biografico in cui si è sviluppata.

Il Surrealismo si impone nella prima metà del XX secolo, in un periodo storico segnato dal conflitto fra ideologie totalitarie che hanno preteso di incarnare la verità, giustificando i loro metodi dispotici con la convinzione che avrebbero realizzato il migliore dei mondi possibili. La rivoluzione bolscevica era vista da buona parte dei surrealisti come la realizzazione del regno delle libertà e dell’uguaglianza.

Breton e in generale il movimento surrealista erano vicini alle tesi di Trotsky, da loro amato proprio perché la sua rivoluzione permanente avrebbe consentito la massima espansione agli ideali del socialismo, che non potevano realizzarsi solo entro i confini dell’Unione Sovietica.

Ma più che le tesi di Trotsky a incidere profondamente sull’opera dei surrealisti furono quelle di Freud, nonostante il padre della psicanalisi, legato a una concezione classica dell’arte, non ne condividesse presupposti e programmi. I surrealisti credettero che fosse possibile dare immagine a visioni che trascendessero i processi coscienti, convinti che l’arte potesse avventurarsi oltre le soglie della coscienza. Quest’idea dell’arte fu contrastata da Freud, che non riteneva possibile elaborare formalmente pulsioni oscure che provengono dall’inconscio con il metodo dell’automatismo, eliminando cioè nella costruzione dell’opera la fase preconscia. Muovendo da tali considerazioni Freud giunse a considerare il Surrealismo un’espressione artistica tanto inadeguata quanto immatura.

La morte in Europa

Ma torniamo a L’angelo del focolare, dipinto che mi ha sempre catturato e di cui ho già avuto modo di scrivere. Nel 1937, preoccupato per la guerra civile spagnola, vista come prova generale dell’avanzata dei fascismi in Europa, Ernst diede immagine al senso di morte che incombeva sul continente dipingendo «una specie di goffo bestione che distrugge tutto ciò che incontra» e nel quale si può ravvisare la forma di una svastica.

Ernst era tedesco ma, come gli spagnoli Picasso o Miró, viveva allora a Parigi. Come tutti gli artisti che avevano lasciato il proprio Paese d’origine, guardava gli avvenimenti da una prospettiva europea e non nazionale. L’angelo del focolare è un demone politico, ma più che il demoniaco esprime il diabolico. Le forze che lo muovono vengono dall’uomo, non sono espressione del divino. Avanza imperterrito, è pronto a schiacciare sotto il suo peso tutto quello che incontrerà lungo il suo cammino. Rappresenta la forza bruta con cui non si può venire a patti e da cui non ci si può difendere.

Ernst definisce l’identità del mostro sovrapponendo i caratteri dei demoni delle raffigurazioni medievali e di quelle cinquecentesche dei paesi nordici, in particolare di Stephan Lochner e di Matthias Grünewald. Ma a differenza di quanto avviene nei dipinti di Lochner, di Grünewald o di Gerung, nel suo avanzare solitario l’angelo  non condivide con gli esseri umani la scena del quadro. Per quanti riferimenti si possano riscontrare alle diverse rappresentazioni di diavoli e demoni nella storia dell’arte, non c’è nulla che lo ricolleghi alle narrazioni a tema sacro.

Ben lontano dall’essere un angelo rassicurante, come suggerirebbe il titolo, quest’essere mostruoso avanza a testa bassa e con movimenti disarticolati. Anche il paesaggio alle sue spalle non ha nulla di rasserenante: il cielo è minaccioso e la terra brulla offre uno scenario desolato. Il lungo becco fa pensare a un uccello, ma il demone ha denti aguzzi e criniera. La gamba destra termina con uno zoccolo ferrato, l’altro piede, appuntito e pieno di sporgenze acuminate, ha la forma di una pianta carnivora. La gamba sollevata sta per calpestare con forza il suolo. Le grandi mani hanno artigli minacciosi. Gli accenni di ali non hanno nulla in comune con quelle piumate degli angeli. Gli abiti sono a brandelli, ma nello stesso tempo hanno seducenti colori aggressivi.

Prova inutilmente a frenarne l’avanzata aggrappato alla gamba e al braccio del mostro, un Loplop, un uccello antropomorfo immaginato da Ernst come il proprio alter ego e presente in altri suoi lavori già alla fine degli anni Venti. Riconducibile alle teorie psicanalitiche che, come si è detto, influenzavano allora il pensiero surrealista, in questo caso il Loplop che il mostro trascina con sé rappresenta simbolicamente la lotta impari dell’artista contro il male.

Creature minacciose e foreste

Ernst non era nuovo a rappresentazioni di creature antropomorfe dall’aspetto minaccioso che rimandano a scenari da Giudizio Universale. La sua serie di piccole opere intitolate La Horde (1927), realizzate con la tecnica del grattage – cioè rimuovendo o pressando il colore ancora fresco con pezzi di legno o altri materiali – e poi rifinite con il pennello, evocano figure demoniache (nella mostra di Milano ce ne sono diverse). Alcune di loro hanno le corna, altre la cresta. Sembrano alberi pietrificati, corrosi dagli agenti atmosferici, eppure avanzano minacciosi.

Un tema ricorrente nell’opera di Ernst è la foresta. Realizzati a cavallo tra gli anni Venti e Trenta, i lavori con questo soggetto si ricollegano alla tradizione del romanticismo tedesco e alle foreste di Caspar Friedrich in particolare, nella cui poetica questo soggetto ha la doppia valenza di luogo di straordinaria bellezza e di terrore. Se si mette in relazione invece alla poetica surrealista, la foresta diviene territorio dell’immaginario onirico. È un luogo in cui è difficile penetrare, ma anche un luogo da cui è difficile evadere. La fitta vegetazione si fa pietra, diviene muro invalicabile. Oppure è una sorta di apparizione misteriosa nella quale ricorre, come fosse un sole o una luna, un anello.

Ernst realizza questi dipinti anche avvalendosi delle tecniche del frottage e del grattage, che gli consentono di accogliere i suggerimenti dati dal caso, modificando e adattando i segni e le macchie ottenuti con l’impronta lasciata sulla tela dallo sfregamento su una superficie ruvida. L’artista dichiarava di ispirarsi alle foreste dell’Oceania, selvagge e impenetrabili, secolari e feroci. Quanto basta per prendere atto che quello che Ernst ci mostra è un male pervasivo che è stato capace di corrompere il mondo animale e vegetale fino a fare della stessa natura un mostro ostile che inghiotte ogni cosa. In questi lavori il male è già compiuto.

Tante sfaccettature

Dire tuttavia che Ernst sia stato solo un pittore drammatico non sarebbe corretto. Il suo lavoro ha diverse sfaccettature e si apre a molteplici interessi e sfumature. A tratti è ironico, altrove è criptico e insinua nell’immagine la dimensione esoterica, a volte ancora la sperimentazione mira alla narrazione, altre sconfina nel non-senso. Con un ventaglio di esperienze sensitive che si fanno immagine Ernst dimostra di essere un artista seminale. Il suo lavoro contiene semi i cui frutti sono stati colti da altri artisti dopo di lui.

Un esempio per tutti ci viene da Nascita di una galassia (1969), in mostra, che formalmente ritroviamo in alcune note opere di Ross Bleckner degli anni Novanta. Anche l’utilizzo che egli fa di immagini potenzialmente astratte – si pensi a Trentatré bambine vanno a caccia della farfalla bianca (1958) o a La festa a Seillans (1964) – anch’esse in mostra – sembrano anticipare concezioni dell’astrazione che dagli anni Ottanta arriva ai nostri giorni e che richiede di essere letta con le stesse modalità narrative normalmente utilizzate nell’affrontare la figurazione.

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