Pietro Turano è tra le voci più interessanti della scena italiana. Attivista per i diritti Lgbtq+, lavora per creare una comunità che accolga chi una casa, in senso lato, non ce l’ha. Attore, è conosciuto per la sua interpretazione di Filippo in Skam Italia, serie tra le più viste in Italia, su Netflix e Tim Vision. Pochi mesi fa ha scritto e dato voce a Eclissi, podcast che racconta storie di riscatto Lgbtq+, che si ascolta su Spotify. Pietro usa mezzi diversi ma il messaggio è solo uno: dobbiamo costruire e non demolire, l’umanità risiede nella comunione.

Pietro, che bambino sei stato?
Un bambino strano. Ho pochi ricordi dell’infanzia, ma i racconti di famigliari e amici mi danno il ritratto di un Pietro silenzioso e solitario.

Hai pochi ricordi dell’infanzia?
Ho ricordi emozionali: non accadimenti specifici, ma sensazioni. Di certo c’è che ero davvero un bambino solitario e che sono nato sotto il segno del dolore.

Cosa intendi?
Che una sofferenza senza nome mi accompagna da sempre.

Un ricordo di questo tuo silenzio?
Mi hanno raccontato che per molto tempo da bambino non ho parlato con mio padre. Ero piccolo, a stento ero capace di parlare, ma mio padre lo ignoravo.

La ragione?
Non la conosco ma è qualcosa che per tanto tempo mi ha fatto sentire in colpa.

È una solitudine reale, la tua?
È interiore. Di fatto, non sono mai stato lasciato solo. È che ho la sensazione di non essere visto, spesso. La mia solitudine funziona così: vedo le persone ma di rado sento di essere visto.

Il momento in cui hai preso consapevolezza della tua omosessualità?
Ero in prima media. Avevo già avuto dei contatti con dei compagni di scuola, cose infantili che avevano la dimensione del gioco ma, per quanto si trattasse di episodi innocenti, in qualche modo mi facevano riflettere. Poi, durante le vacanze di Natale, avevo dodici anni, ho scoperto la serie tv Queer as folk: raccontava le vite di un gruppo di amici gay nell’America anni Duemila. L’ho vista in pochi giorni: non riuscivo a smettere. Ed è stato allora che ho capito.

Cos’hai pensato?
Che continuando a dirmi che fossi etero non sarei arrivato da nessuna parte.

Sentimento dominante?
Ancora una volta, la solitudine.

Il coming out quand’è arrivato?
Pochi mesi dopo quel Natale. I miei sono stati tra i primi a saperlo. Avevamo un bel rapporto, ci tenevo che lo sapessero da me.

Com’è andata?
Avevo conosciuto online un ragazzo (la dimensione online è stata importante per me, come credo per la gran parte dei ragazzi gay), solo che lui abitava in Emilia-Romagna e io a Roma: vederci era difficile. Così quell’estate, quella dopo il Natale di cui ti parlavo, quando con i miei ci siamo trasferiti nella casa al mare di famiglia in Abruzzo, ho chiesto loro di accompagnarmi in Emilia-Romagna per incontrarlo, questo amico, e i miei, gentili, all’inizio mi hanno detto di sì. Quando agosto era agli sgoccioli volevo riscuotere la promessa ma mi hanno detto che no, mica potevamo andarci, in Emilia-Romagna. Avevano detto di sì per rimandare la questione, e li capisco: ero un dodicenne. Al loro diniego ho reagito male, ed è scoppiata una lite furiosa.

Ci tenevi parecchio.
Il desiderio di conoscerlo era forte: quel ragazzo è stato importante. È stato il primo a cui mi sono avvicinato sentimentalmente, ha avuto valenza simbolica molto grande.

A fine lite?
Gliel’ho detto, mettendoli alla prova: «Questa è la verità, questo il motivo per cui voglio andarci, a conoscere il ragazzo: che mi dite, ora?».

Reazione?
Mio padre è rimasto impietrito, non parlava e non si muoveva. Mia madre ha iniziato a tremare. Le ho chiesto perché, e mi ha risposto di avere freddo: era agosto. Allora un pensiero netto e deciso mi ha traversato la testa: ora mi butto dalla finestra. Era lì davanti a me, e ho pensato di lanciarmi. Davvero.

Ma non ti sei buttato.
Ma non mi sono buttato. E dopo due giorni, quando ormai avevano elaborato quel che gli avevo detto, i miei sono venuti nella mia cameretta per dirmi che avremmo fatto una gita in Emilia-Romagna.

Un gesto tenero.
All’inizio avevano reagito in quel modo perché non erano pronti, non avevano gli strumenti per capirmi e venirmi incontro. Quando però mi hanno detto che saremmo potuti andarci, dal mio amico, mi sono detto che era tutto okay.

Ci siete andati, poi?
Sì. Quel ragazzo l’ho incontrato.

Com’è andata con lui?
Non ci siamo manco baciati, pensa. Però si tratta sicuramente di un momento fondamentale nella costruzione della mia individualità.

Passiamo alla recitazione: volevi fare l’attore da bambino?
Sì, e spesso chiedevo ai miei di invitare i parenti, nonni, zii, cugini, per i miei spettacoli. Li facevo sedere sui divani, li facevo pagare un euro a testa e davo il via alla recita. Ballavo, recitavo poesie, a volte improvvisavo e basta.

Come sei passato dagli spettacolini in casa a Netflix?
Ho iniziato a teatro, alle Carrozzerie n.o.t. di Roma dove ho conosciuto Dante Antonelli, regista con cui lavoro da tanti anni: con lui ho scritto Eclissi. C’era un clima splendido, un bel fermento, e lì ho conosciuto la mia agente per il cinema.

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Sullo sbalzo a Skam Italia che mi dici?
Nessuno sbalzo, per diversi anni le esperienze sono coesistite pacificamente: da una parte il teatro, dall’altra la tv.

Però quando Skam Italia è esplosa, diventando tra le serie più viste in Italia, le cose dovranno pur essere cambiate per te.
Skam Italia d’un tratto è proprio esplosa, vero, ma il suo potenziale noi lo avevamo già capito ed è comunque successo in modo graduale. Il passaggio a Netflix, da Tim Vision, è stato il propulsore che ci ha portati a essere, come dici, parte di una delle serie più viste in Italia, ma è capitato con una gradualità che ci ha dato il tempo di comprendere cosa ci stesse capitando.

Un momento delle riprese di Skam Italia a cui sei affezionato?
Diversi, in realtà. Molti legati a Ludovico Bessegato, regista e sceneggiatore di Skam Italia. Ricordo il primo provino, è stata un’esperienza molto bella. Dovevo recitare una scena delicata, e Ludovico voleva capire che significato le dessi, come la vivessi per modificarla secondo la mia sensibilità.

L’attivismo invece quand’è arrivato, e perché hai deciso di esporti tanto?
Ho vissuto a lungo in una bolla privilegiata: buone scuole, ottimi amici e una famiglia consapevole fossi gay. Tutto bene finché la bolla non è scoppiata. Al terzo liceo sono diventato rappresentante d’istituto, la politica mi interessava già all’epoca. Ne ero felice, quell’impegno mi piaceva, ma poi, mesi dopo la mia elezione, sul muro di scuola è comparsa una scritta tracciata con lo spray: frocio dimettiti, e una croce celtica sopra. È stato un momento fondativo della persona che sono: ho capito che la condizione di privilegio in cui mi trovavo poteva essere uno strumento per migliorare la vita di altri. Mi sono impegnato sempre di più, avvicinandomi a Gay Center, di cui oggi sono portavoce. E da qui arriva l’attivismo.

La politica ti interessava già da piccolo, quindi.
Capita mi venga domandato quali fossero gli idoli della mia adolescenza e la risposta che tanti si aspettano credo contempli cantanti o attori. Io, invece, da ragazzino andavo ai comizi di Nichi Vendola, nelle piazze in sciopero. Erano quelli i miei idoli, quelli i miei interessi.

La domanda, a questo punto, sorge spontanea. Ti candiderai mai?
La politica mi interessa come impegno civile. Non perché provi disprezzo per quella di palazzo, è solo che voglio partecipare rimanendo parte società civile. Per rispondere: non è parte del mio progetto di vita, ma è una possibilità. Non lo vedo come un pezzo del percorso che sto costruendo, però non lo escludo.

Giacché stiamo parlando di politica. Su Meloni e Salvini che mi dici?
Sarò cinico, ma la paura che tanti provano all’idea che le elezioni di settembre ci possano portare a un governo guidato da Meloni e Salvini non la provo. Mi sembra fisiologico che partiti come i loro governino a un certo punto. Ciò che ci dovrebbe dare sicurezza è la Costituzione.

Non c’è niente che ti spaventi, in proposito?
Che possano essere fatti dei passi indietro in materia di diritti civili, questo sì. Che vengano tolti fondi e strumenti utili alle minoranze. E non mi preoccupa solo per l’Italia, è il panorama internazionale che mi spaventa. È chiaro che il mondo stia dirigendosi verso una deriva terribile: penso alla decisione della Corte suprema americana, ad esempio. Credo, però, che quel che dovrebbe farci riflettere non siano le destre ma la mancanza di una sinistra che possa in qualche modo definirsi tale. Nelle nostre lotte di alleati non ne abbiamo - la maggioranza che ha governato negli ultimi anni, e che si è definita di sinistra, non è stata capace di far passare una legge contro l’omotransfobia. È l’assenza di una forza politica che rappresenti ideologie progressiste a preoccuparmi.

Hai anche scritto un podcast, Eclissi, a cui hai dato la tua voce.
Si tratta di storie complesse, a tratti tristi, ma non volevamo ripiegare su una inutile pornografia del dolore. Da una parte volevamo dare l’idea di quanto le storie raccontate siano piene di luce dall’altra non volevamo rinunciare al loro lato tragico. Da qui il titolo: porre l’accento sul momento in cui un individuo prende in mano la propria vita passando dall’ombra alla luce. Essere invisibili è un momento, la luce torna. Ed ecco l’eclissi: un fenomeno temporaneo.

Pietro, hai cinquant’anni. Che fai, con chi sei, dove sei?
Sono in campagna, sto scrivendo. Con me c’è il mio ragazzo, lavora nell’orto, e gli amici. Ognuno gira per casa, tutti presi dalle proprie faccende. Non è una festa, ma una grande famiglia.

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