Di Quattro galline (Einaudi 2022), Niccolò Ammaniti ha detto che «la gallina non pensa, sa» e leggendolo, questo romanzo, l’esordio dell’americana Jackie Polzin, mi sono detto che sì, è così: l’istinto che abita le galline coprotagoniste di questa storia ha in sé tutto il vigore e la brutalità della vita stessa.

La protagonista di Quattro galline non ha un nome, ma la seguiamo nella sua quotidianità senza mai allontanarcene. Lavora come domestica, ha un marito e una casa in periferia. Lì, sul retro, alleva quattro galline in un pollaio che ha messo su lei stessa. Ogni gallina ha un nome e un carattere suo, di ognuna di loro la protagonista si prende cura come fossero figli suoi. Ma cosa significa, davvero, accudire qualcuno? È un atto sinonimo d’amore?

Polzin, giovane scrittrice americana, se lo chiede in questa sua splendida opera prima, un romanzo lieve e commovente che usa un umorismo spietato per scavare nelle profondità di desideri e paure.

Jackie, perché proprio le galline?

Me l’hanno chiesto spesso. La risposta che ho dato negli ultimi mesi, quella istintiva, ha a che fare con l’elemento autobiografico, che nel romanzo è forte: io e il mio partner abbiamo allevato delle galline, tempo fa. Vivevamo fuori città, in periferia, e per un periodo abbiamo avuto delle galline in un pollaio costruito nel giardino sul retro.

Hai detto che la risposta che ha a che fare con l’elemento autobiografico è quella che hai dato più di frequente, e la più istintiva. Ce ne sono altre?

Credo di sì, ma coglierle fin in fondo non è facile anche per me. C’è una cosa però che mi ha sorpresa, a tal proposito, è che ha a che fare con quello di cui stiamo parlando. Mesi fa, a una presentazione mi è stata fatta questa domanda, io ho risposto come sempre e a fine incontro mia sorella - c’era anche lei, quel giorno - mi ha ricordato che anni prima, al college, avevo scritto un racconto in cui era presente una gallina.

E l’avevi dimenticato?

Sì. Incredibile!

Di cosa parlava questo racconto?

È la storia di un anziano che lavora in un girarrosto e che ha una gallina come animale da compagnia. Di giorno arrostisce polli, di notte si prende cura della sua gallina. Pensa, mia sorella ne aveva ancora una copia e me l’ha data.

L’hai riletto, quindi?

No, ho paura.

Di cosa?

Non saprei. Ero giovane quando l’ho scritto.

Quindi le galline sono nel tuo panorama autoriale già da tempo.

Evidentemente sì, ma non so perché.

Crescendo, magari, è capitato che la tua famiglia ne abbia allevate?

No. L’ho pure chiesto ai famigliari più stretti, perché io stessa ho pensato che fosse capitato qualcosa del genere. Ma no, niente: il primo contatto con questi animali è avvenuto verso i trent’anni, quando io e il mio partner ne abbiamo allevate alcune. Molte persone che conosco da piccole hanno avuto a che fare con delle galline, mi è stato raccontato spesso, ma io no.

In effetti, quand’ero bambino i miei nonni avevano una casa in campagna e allevavano delle galline, nel pollaio dietro l’orto. Ce n’erano una decina e ognuno di noi nipoti ne aveva una tutta sua, con un nome proprio e via discorrendo.

Che bella storia! Ecco, se ne avessi pure io una così si spiegherebbero davvero molte cose  (ride, ndr). La cosa paradossale è che l’unico, vero contatto stretto avuto da ragazza con polli e galline è stato nei ristoranti in cui ho lavorato. Ma insomma: lì erano morti.

Un episodio in particolare del periodo in cui tu e il tuo partner avevate le galline?

Un giorno andai nel pollaio per prendere le uova, come facevo tutte le mattine. All’interno c’erano diverse ceste messe in fila e le galline deponevano le uova lì dentro, nelle ceste, per poi allontanarsene e girovagare. Quella mattina però notai che una delle galline era ancora appollaiata sulla cesta, quando le andai incontro e feci per spostarla la sua reazione fu molto violenta: voleva rimanere lì, stava covando l’uovo. Era come convinta che ne sarebbe potuto nascere un pulcino, cosa impossibile perché di galli non ne avevo. Evidentemente sentiva una sorta d’istinto materno, di accudimento nei confronti dell’uovo. Fu come guardarmi nello specchio. In quel periodo lottavo con l’infertilità – è stata una battaglia lunga circa tre anni – e vedere la gallina covare l’uovo come convinta di poter diventare madre fu forte.

Mi verrebbe da dire che il romanzo sia nato quel giorno.

Cominciai a scrivere in quel periodo, in effetti. Nelle mie intenzioni però non c’era la stesura di un romanzo, ma di un diario.

Un diario della tua vita?

Sì e no. Ecco, più un racconto dalla forte connotazione autobiografica. Strada facendo, però, mi sono resa conto che si trattava di qualcosa di più complesso. Scrivendo, mi sono allontanata sempre più da me stessa e la voce della mia personaggia ha preso il sopravvento. Volevo scrivere un incrocio tra la forma racconto, la diaristica e la giornalistica, e volevo per protagonista una persona che riflette sulla sua vita. E volevo che le colonne portanti fossero l’infertilità e l’aborto, esperienze che hanno avuto un forte impatto sulla mia esistenza.

A proposito della tua protagonista. Non ha un nome. Perché?

Dapprincipio era una scelta di stile, poi mi è parso naturale continuare così.

Su aborto e infertilità, di cui hai fatto cenno. La tua protagonista vive in solitaria queste due esperienze.

Sì, perché per me è stato così.

Ti sei sentita sola, traversandole?

Sono state esperienze che mi hanno fatto sentire una distanza marcata rispetto al mondo, alle persone che avevo vicino. Il fatto stesso che lei, la protagonista, non abbia un nome ha a che fare anche con questo: se un nome non ce l’hai è come se fossi fuori dalla società.

A cosa credi fosse dovuta la distanza di cui parli, avvertita nel periodo in cui hai avuto un aborto spontaneo, tra te e chi avevi attorno?

Innanzitutto al fatto che la gente fatica ancora molto a parlare liberamente di aborto, per i più è difficile farlo in modo aperto. Io stessa in quel periodo non mi sentivo libera di farlo, e oggi mi dico che avrei preferito parlarne in modo più tranquillo. Rimasi incinta dopo tre anni di lotta contro l’infertilità, quando accadde lo dissi ai miei amici più stretti e ricordo una sera in cui uno di loro, parlando con un altro, disse «sì, Jackie è incinta ma solo di sei settimane». Lo disse come se non avessi dovuto dirlo, come fosse ancora presto.

Qual era il problema?

Che se le cose fossero andate male l’avrebbero saputo tutti, visto che lo avevo detto. Questo ai suoi occhi mi avrebbe esposta a una sorta di vergogna per un fallimento. Per tanti il dolore è qualcosa di cui ci si deve curare in privato, soprattutto se si parla di aborto. È per questo che molte donne non dicono di essere incinte fino al quarto mese: se chi hai attorno lo sa e la gravidanza si interrompe, sei come esposta. Non puoi controllare il tuo stesso dolore, devi avere a che fare con la vergogna cui lo sguardo degli altri ti sottopone.

Perché credi si inneschi questo meccanismo?

Perché ancora di aborto non si può parlare liberamente, appunto.

Quando la tua protagonista ha un aborto, lei e il marito sembrano avere difficoltà a comunicare il loro dolore. È così?

Un aborto è dolorosissimo per entrambe le parti, ma per quanto la sofferenza sia condivisa corre comunque su binari paralleli, ed è difficile che i due siano capaci di comunicare restando sulla linea del proprio dolore. Quel che volevo era catturare l’impossibilità di esistere al cento per cento nel dolore di un’altra persona.

Torniamo alle galline. Vivono nel momento, senza alcuna proiezione nel futuro o ricordo del passato. Nonostante questo, però, hanno l’istinto che suggerisce loro cosa fare, provare. Credi che questo modo di vivere privo di estensioni temporali sia praticabile e auspicabile per le persone?

Tendo a pensare che sarebbe il modo ideale di vivere ma temo sia impossibile. Io stessa, nel quotidiano, cerco in tutti i modi di esercitare la capacità che ho di vivere nel momento presente, senza farmi ossessionare dal passato e senza farmi accalappiare dalle ansie del futuro.

Da cos’è dovuta questa impossibilità?

Per vivere dobbiamo abitare zone comuni, dalla famiglia alla società stessa, e dobbiamo sempre tenere conto di passato e futuro. Oggi ho dei figli, e spesso ho la sensazione che sabotino la mia abilità di trovarmi nel momento presente. E a proposito dei miei figli: loro hanno un modo di vivere simile a quello delle galline. Vedono qualcosa e senza farsi tante domande la prendono, ci giocano, dicono cose tipo “oh, guarda che bella, questa cosa, tanto grande e colorata!”. L’età adulta ci toglie, pezzo per pezzo, la capacità di vivere nel presente.

A proposito di galline e figli. La protagonista trasferisce il suo desiderio di maternità e accudimento sulle galline?

Assolutamente sì. Quel che mi chiedo nel romanzo è se c’è una differenza tra l’accudimento - in questo caso di un animale - e l’amore in sé. La protagonista si prende cura, accudisce le sue galline ogni giorno: non è questo, l’amore? E non è questo, quel che si fa con un figlio?

«Le galline non sono capaci di sperare o forse non hanno ragioni di farlo e basta» pensa la tua personaggia. Cosa diventiamo quando non abbiamo ragioni di sperare?

La speranza ispira l’azione, ed è alla base della vita stessa: è la speranza a dar il via all’esistenza. Le galline non hanno ragione di sperare, e non sanno farlo, ma hanno l’istinto che comanda loro la sopravvivenza. Credo quindi che sia la speranza a fare la differenza tra la vita e la mera sopravvivenza.

Ultima domanda, la faccio sempre. Jackie, hai settant’anni ed è domenica mattina: cosa fai, dove sei, con chi sei?

Ho appena finito di meditare per mezzora, di fare esercizio e scrivere; ho fatto tutto da sola, per me il tempo in solitaria è fondamentale. Ora sono con i miei figli, beviamo tè in casa mia mentre chiacchieriamo. E sto bene.

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