Un fenomeno (anche) televisivo. Il trionfo di Jannik Sinner a Wimbledon ha rappresentato la conferma di una tendenza in atto da tempo: dove c’è il tennista altoatesino, si mobilita un pubblico di spettatori degno dei grandi eventi mediali sportivi che hanno caratterizzato la storia della televisione italiana.

Con oltre quattro milioni di telespettatori e il 29,7% di share, le tre ore e mezza di sfida con lo spagnolo Alcaraz hanno segnato un ulteriore record di ascolti portando Tv8 nell’olimpo della giornata e della stagione; platea che si allarga a oltre 5,6 milioni (40% di share) considerando anche il consumo sui canali a pagamento di Sky, segno che la scelta dell’editore satellitare di trasmettere anche in chiaro è sempre più una strategia che moltiplica l’effetto anziché depotenziarlo. Il tutto, in una domenica di metà luglio che ha vissuto altri exploit di interesse sportivo, dalla finale del Mondiale per club di calcio al Tour de France fino alla MotoGp.

Era già accaduto un mese fa con la finale del Roland-Garros, sempre tra i due campioni, ma con esito opposto, trasmessa su Nove e prima ancora con i vari passaggi di Coppa Davis, ATP Finals e Internazionali d’Italia: se coronato da campioni nazionali e opportunamente confezionato per un pubblico largo, anche uno sport complesso come il tennis può trasformarsi in strumento di coesione nazionale e costruzione di quella «comunità immaginata» che passa dalle più popolari manifestazioni televisive.

Una mania nazional-popolare

Già, la natura del tennis. L’impennata di attenzione che le vittorie di Sinner (ma anche degli altri talenti della racchetta nazionale, da Sonego a Musetti, da Berrettini a Cobolli, a Jasmine Paolini) hanno generato uno di quei processi classici che contraddistinguono la rappresentazione dello sport nel piccolo schermo, sebbene con due particolari non secondari che meritano di essere approfonditi: da un lato, il fatto che il tennis, disciplina tradizionalmente “elitaria” e dalla struttura temporale imprevedibile, non si sposa facilmente con le logiche del mezzo e con le rigidità del palinsesto imposte dal flusso televisivo, e dall’altro la considerazione che la “Sinner-mania” esplode in un’epoca segnata dalla frammentazione dei dispositivi e dei pubblici, rendendo teoricamente più complicata quell’aggregazione ampia necessaria per trasformare un interesse di pochi in autentico trascinamento nazional-popolare.

Il tennis, quella pratica che a proposito di Roger Federer lo scrittore americano David Foster Wallace definiva come una vera «esperienza religiosa», si fonda su una serie di assunti che sembrano antitetici alle regole della comunicazione contemporanea: dilatazione dei tempi, un’articolata struttura del punteggio (i game, i set, i punti in “quindicesimi”), scambi che possono durare un’eternità.

Le telecronache

Dal punto di vista del commento, le telecronache del tennis appaiono difficili e complicate; sport che mantiene una certa eleganza e aderenza a secolari tradizioni, ha nel silenzio ossequioso e quasi religioso con cui il pubblico sul campo e gli appassionati sul divano seguono l’andamento della sfida uno dei suoi elementi più affascinanti. Silenzio che, nelle telecronache contemporanee, può sembrare un’abdicazione alla regola non scritta di riempire i vuoti, di condire i momenti meno entusiasmanti della partita con considerazioni di contorno, statistiche, spiegazioni, elzeviri graffianti.

Nella sua rappresentazione televisiva, quanto di più simile lo possiamo ritrovare nel ciclismo, fatto di lunghe dirette, di estenuanti fasi in cui non succede (o sembra non succedere) nulla, di improvvisi colpi che sparigliano le carte. Ma il ciclismo ha dalla sua il contesto, l’ambiente, il paesaggio che muta sullo sfondo della fatica dei corridori e che diventa prezioso spunto per divagazioni, aneddoti, cartoline da promozione turistica.

Nel tennis, invece, i contendenti e il telecronista sono inchiodati al campo, a un rettangolo in erba, cemento o terra rossa che è parte integrante della mitologia, ma dal quale non si può scappare. E anche le telecronache, nel tennis, diventano uno strumento potente di innovazione e appropriazione televisiva; nella tradizione italiana, la coppia formata da Gianni Clerici e Rino Tommasi ha inventato uno stile, un contrappunto a due voci fatto di commento, colore e digressioni da una parte, numeri e precisione maniacale dall’altra.

Con un tennis che si è fatto sempre più popolare, anche le telecronache dei broadcasters hanno dovuto adeguarsi; un conto è trasmettere per pochi tecnici e appassionati, un altro per un pubblico largo, fatto di occasionali, di spettatori diversificati approdati alla racchetta non per un qualche interesse specifico, ma per sentirsi parte di una grande festa collettiva, di un rituale che unisce milioni di cuori nel tifo verso i propri connazionali, per poi magari tornare ad altri consumi ed altre passoni una volta terminato Wimbledon o quando andrà scemando questo straordinario periodo di “vacche grasse” che caratterizza il nostro tennis.

E non è un caso che proprio sulla questione di un tifo giudicato “tiepido”, se non persino contrario ai colori azzurri, si sono imbattute le telecronache più recenti, a partire da quella della brava Elena Pero con Paolo Bertolucci, “rei” secondo la vulgata social di non aver sostenuto Sinner e, anzi, alzare i volumi del commento solo sui punti del rivale spagnolo. Incomprensioni ed equivoci figli, ancora una volta, di quel difficile processo di trasposizione televisiva di uno sport “aristocratico” nei connotati e nelle estetiche.

I precedenti

C’è poi un secondo aspetto che sancisce la straordinarietà di ciò che Sinner e gli altri tennisti nazionali hanno prodotto negli ultimi anni; la storia dello sport italiano – e della sua riproduzione televisiva – è ricca di fenomeni assurti a miti nazionali grazie al piccolo schermo: Tomba, Pantani, Valentino Rossi sono stati forse gli ultimi esempi di eroi sportivi pienamente televisivi, perché esplosi e fioriti nel periodo di massima esposizione e diffusione della televisione.

Quando Tomba scendeva dalle piste dello slalom gigante, il Festival di Sanremo si fermava per seguirlo in diretta; quando Pantani scattava in salita sulle vette del Giro e del Tour, tutta l’Italia nelle case e nei bar era lì a sospingerlo; quando Rossi imboccava le ultime curve prima del traguardo, si faceva festa anche se non si era appassionati di motori. E ciascuno di loro ha avuto i propri “cantori”, le voci che ne hanno scandito le imprese con frasi, motti, espressioni entrati a pieno diritto nella cultura popolare, da Gattai a De Zan a Guido Meda.

Oggi Sinner compie un altro miracolo; portare tutto il paese a seguire uno sport che per anni è stato laterale, e di farlo in un contesto comunicativo ancora più ostico, con centinaia di canali, piattaforme, social e una miriade di contenuti potenzialmente concorrenti.

L’epopea del tennis italiano in questa seconda decade del nuovo secolo dimostra un’incontrovertibile verità televisiva: lo sport è l’unico contenuto (o quantomeno tra i più efficaci) capace di riaggregare pubblici dispersi, di creare un senso di comunità nazionale e di costruire una narrazione da avvincente romanzo di formazione. E, davvero, non è poco.

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