Il fattore C. è una variabile indipendente che chiunque abbia messo piede in una scuola, anche solo per poco tempo, conosce perfettamente. La parola C., abbreviata nella sua iniziale, è sinonimo di fortuna, ma rende meglio l’idea di ciò di cui stiamo parlando.

Nel fattore C. sperano i genitori quando iscrivono i figli per la prima volta a scuola, il fattore C. lo invocano i ragazzi quando sognano il trasferimento di un insegnante particolarmente odioso, o noioso, o tignoso. Il fattore C. cambia la vita dei docenti, che non sanno dove insegneranno, chi si troveranno di fronte nel collegio dei docenti, in classe, giorno dopo giorno, anno dopo anno.

Ovviamente, il fattore C. può essere evocato all’ottativo, con la speranza che la scuola abbia un ruolo determinante nelle nostre vite o nelle vite delle persone che amiamo, ma questa speranza può rappresentare anche una disfatta: “Sfanghiamo questa interrogazione”, “questo anno di lavoro e poi basta”. Felici, allora, quelli che sfidano ogni evidenza e intendono il proprio mestiere di insegnante come un tirocinio costante, nel quale il fattore C. è ridotto a variabile dipendente, che ogni anno non è ancora scritto, quelli che sanno che l’aula scolastica è uno spazio di possibilità e non una roulette russa senza senso. E fortunati quelli che incontrano sulla loro strada insegnanti così.

Essere umani

LaPresse

Una di queste insegnanti, senza dubbio, è Gaja Cenciarelli, docente di inglese alle superiori (ma si dice secondarie di secondo grado). Traduttrice di Margaret Atwood, Flannery O’Connor, per citarne due, scrittrice, ha deciso di far combaciare i suoi due mestieri raccontando un anno di vita scolastica in una quinta di una scuolona di periferia romana. E ne è uscito un libro bellissimo.

Gaja, la prof, perché nessuno ce la fa a dirla fino in fondo questa parola, PROFESSORESSA, quando entra in classe nessuno la vede. «Quindi lei insegnerebbe inglese», le chiede a un certo punto un ragazzo, Daniele, il più casinista, il più incasinato, che però è il primo riconoscerla come essere umano.

Perché lei lo è un essere umano, anche se strano come la Giraffa del circo lì vicino, mentre loro, i ragazzi, sono solo monnezza, aggiunge lo stesso Daniele, poco dopo. La prof non sa bene cosa fare, come reagire e in questa sua incertezza (oltreché a un terrore sacro di non farcela) c’è la profonda comprensione del pensiero pedagogico più illuminato, quello che non dà ricette, che non dice come comportarsi ma che invita al dubbio sistematico nei confronti di sé e dei ragazzi, quando in gioco c’è l’educazione.

Cenciarelli prosegue, con Domani interrogo (Marsilio) una luminosa tradizione che la vede accanto ad Albino Bernardini, Sandro Onofri, Domenico Starnone, con una differenza non secondaria, visibile, ma non detta: lei, infatti, è una donna. È una donna la scrittrice, è una donna la prof. Banale? No.

Perché da che mondo è mondo il libro di scuola è genere pressoché esclusivamente maschile malgrado le insegnanti siano state da subito, in larga parte, donne. Da Edmondo De Amicis a Giovanni Mosca, da Leonardo Sciascia a Lucio Mastronardi, il Novecento ci ha lasciato in dono bellissimi esempi di letteratura di scuola. Le eccezioni sono rare, penso a Silvia Dai Pra con Quelli che però è lo stesso (Laterza, 2011) per citare un esempio di anni recenti. Eppure, vale la pena sottolinearla questa appartenenza di genere, perché la voce delle maestre, delle professoresse è normalmente soverchiata da quella di carismatici colleghi maschi che al grido di “capitano mio capitano” occupano tutto lo spazio disponibile (cioè poco) che l’immaginario pubblico dedica alla scuola (quando non è occupato a denigrarla, ovviamente).

Malgrado qualche incursione inevitabile nel collegio docenti, nei corridoi, il romanzo di Cenciarelli si svolge tutto nell’aula scolastica, in classe. E subito fa venire in mente il lavoro di insegnanti come Mario Lodi, Albino Bernardini appunto, che aprono la finestra per lasciare che il mondo entri dentro la scuola e la scuola sia sempre in contatto con il mondo. Come? Attraverso i corpi dei ragazzi e delle ragazze che danno forma alla classe stessa. Anche questo è importante perché l’aula diventa, nel corso dell’anno narrato, davvero, un laboratorio didattico e un’ancora di salvezza.

La salvezza torna e ritorna come parola chiave non perché si affidi alla scuola un valore palingenetico, né all’insegnante una missione ma perché nel reciproco riconoscimento, nell’accettazione delle differenze, nella scoperta della bellezza della letteratura anche da parte di chi ha sempre pensato di non esserne all’altezza, di esserne degno, c’è tutto il senso della scuola come dovrebbe essere. Una prospettiva che è politica e richiama alla mente quanto ha scritto l’attivista e intellettuale americana bell hooks nel suo Insegnare comunità (Meltemi) uscito negli stessi giorni di Cenciarelli. Educare è sempre una vocazione radicata nella speranza, scrive. Ecco. E continua: «noi insegnanti crediamo fermamente che l’apprendimento sia possibile, che nulla possa impedire a una mente aperta di cercare il sapere e trovare il modo di conoscere». L’educazione è una pratica di libertà che permette di affrontare il senso della perdita (di sé, di senso, della famiglia, della città in cui si vive, nemica), ripristinando quella connessione reciproca, facendo comunità.

Cambiare l’iniziale

LaPresse

La comunità. Che sia giunto il momento di cambiare davvero strada per la scuola e scommettere sul fattore C comunità e non sul fattore C… fortuna? Del resto ci si salva solo insieme, su questo non c’è dubbio. Sortirne da soli è l’avarizia, sortirne insieme è la politica, citando la Lettera a una professoressa di don Milani e dei suoi ragazzi. Ma come fare a superare le barriere e crearla davvero questa comunità auto educante in anni di crisi profonda e strutturale, oltreché individuale?

A un certo punto bell hooks racconta di un incontro con alcuni insegnanti della scuola elementare e di una maestra che ammette di odiare il suo lavoro e gli studenti. Un sentimento assai diffuso e troppo poco indagato così come poco indagato è burnout del corpo docente (Cenciarelli chiama Barnaout il bar fuori dalla scuola, un caso? non credo). Non c’è una ricetta per affrontare questo malessere, la depressione, il senso di angoscia e la frustrazione se non, scrive bell hooks, decolonizzando il nostro sguardo su quello che facciamo.

«Sforzarsi di insegnare bene significa impegnarsi nel servizio. I migliori insegnanti sono quelli desiderosi di soddisfare le esigenze di chi studia, ma nella cultura patriarcale capitalista, imperialista e suprematista bianca, il servizio è un concetto svalutato. La cultura dominante svilisce intenzionalmente il servizio, allo scopo di mantenere la subordinazione, e chi serve viene considerato indegno ed inferiore». Ci vuole coraggio per rovesciare questo punto di vista.

Quando si parla di insegnamento come servizio si viene infatti sempre tacciati di una visione strumentale della scuola, ma bell hooks indica un’altra modalità che punta tutto sulla classe come spazio di possibilità, appunto.

Mettersi insieme, mettersi alla prova, condividere pratiche, esperienze, punti di vista. Perché il sapere o ha una funzione pratica o non è. Come è evidente quando nella V di Cenciarelli i ragazzi scoprono James Joyce e leggono I morti e capiscono che non tutto è come sembra, che i vivi e i morti camminano insieme. Ma chi sono i morti, si interroga la prof guardandoli, guardandosi.

La letteratura serve, e non per questo vale meno. Serve a fare parte di qualcosa che non è un canone, una tradizione ma una comunità di esseri umani, ieri come oggi. Solo così attraverso un riconoscimento reciproco, si può tornare a riflettere su di sé, sul proprio lavoro, sulla propria identità e sentirsi come la pressoré di Cenciarelli.

«Ogni volta che mette piede a scuola, ogni volta in cui uno studente la incontra nei corridoi ancora deserti e le dice: “Buongiorno professoressa”, o più spesso: “Ciao pressoré”, lei si sente al posto giusto, al momento giusto». Il momento di heightened perception di cui parla Virginia Woolf, di sudden insight of revelation di cui parla Joyce. Il momento in cui ci si fa scuola.

© Riproduzione riservata