Può esistere una cucina tradizionale senza prodotti? Forse sì, ma allora smette di essere tradizionale e diventa nostalgica
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani e in edicola
Immaginate che da domani, a causa di una malattia, di una legge o per le conseguenze del cambiamento climatico i pomodori spariscano dalle nostre campagne. Non parlo di una varietà, ma di tutti i pomodori coltivati nel nostro Paese. Cosa resterebbe dell’immaginario di gran parte della nostra cucina? Non parlo dei piatti. Quelli, grazie al mercato globalizzato, continuerebbero a esistere, preparati con la stessa tipologia di ortaggi, ma provenienti da altre lontanissime campagne. Di una parte consistente della cucina italiana, invece, almeno per come la conosciamo oggi, resterebbe poco.
il valore dei territori
La cucina italiana, infatti, almeno negli ultimi quindici anni, ha assunto una forma che non può prescindere dalla materia prima e dal territorio. Non è solo una questione sensoriale, ma anche e soprattutto valoriale. Quando pensiamo alla cucina italiana “autentica” - un termine sempre più usato e abusato parlando di cucina - la immaginiamo, infatti, preparata con prodotti di prossimità. Del resto, come dice bene il professor Fino contestando la candidatura della cucina italiana a patrimonio Unesco e proponendo di tutelare, invece, la confidenza italiana con il cibo, «l’essenza di ciò che la generalità degli italiani trova ideale in un piatto è la presenza di ingredienti che non sono generici, ma caratterizzati (spesso da un’origine, artigianale o territoriale, anche a costo di promuovere in questo modo dei falsi miti), pregiati perché frutto di scoperta e di una qualche esclusività, deliziosi e individuabili».
Se da domani, quindi, sparissero i pomodori italiani, con le loro oltre 300 varietà, si perderebbero quelle caratteristiche che ce li fanno piacere e che il resto del mondo vuole provare, cercando, a torto o a ragione, una autenticità che altrove, anche quando le ricette sono eseguite alla perfezione, non trova. Mangiare in un locale di tradizione o di territorio - le due definizioni sono diventate quasi sovrapponibili - non significa più solo mangiare i “piatti della nonna”, ma scoprire qualcosa in più del luogo nel quale ci troviamo proprio attraverso i prodotti impiegati.
Questione di fascino
Facciamo un altro esempio, forse ancora più evidente: pensate che se tutto il tartufo bianco raccolto nelle Langhe sparisse - un destino tanto nefasto quanto plausibile vista la sempre minore presenza di boschi nelle zone più vocate e la sempre maggiore frequenza di primavere aride o segnate da piogge torrenziali - e fosse sostituito dal medesimo fungo, ma raccolto nell’est Europa o in altre zone d’Italia, l’attrattiva turistica sarebbe la stessa? Io credo di no. E la spiegazione non è tanto da cercare nella qualità del prodotto – potrebbe anche essere, infatti, che tartufi provenienti da altre zone siano buoni al pari se non più del “bianco d’Alba” – quanto piuttosto nel fatto che se può provenire da ovunque, allora il tartufo bianco perde gran parte del fascino e dell’esclusività che il territorio nel quale nasce e cresce, contribuisce a definire.
I due esempi appena fatti sono del tutto ipotetici, almeno per il momento. Eppure se analizziamo le proposte di locali che si raccontano come “di tradizione” non è raro trovare piatti a base di ingredienti un tempo comuni e oggi rari o del tutto scomparsi.
Rare rane
Si pensi per esempio alle preparazioni a base di rane. Scorrendo le pagine de Le ricette regionali italiane di Anna Gosetti della Salda, il ricettario di tradizione per eccellenza, sono moltissime le ricorrenze di piatti con le rane, soprattutto in quelle regioni note anche per la coltivazione del riso (Piemonte, Lombardia, Veneto) e quindi ricche di zone umide. La rana fino a sessanta, settanta anni fa era molto diffusa e facile da cacciare, mentre oggi, allo stato selvatico, a causa soprattutto dell’impiego di mezzi pesanti e diserbanti, è quasi completamente scomparsa - restano ancora pochissimi ranari - e il suo allevamento in Italia è vietato. E allora tutti i luoghi che propongono le cosce fritte o in frittata?
Esclusi pochi che si riforniscono dai rari cacciatori ancora in attività, tutto il resto proviene dall’estero, in particolare da Turchia, Vietnam e Albania. Tanto per essere chiari, non c’è nulla di male a proporre rane d’importazione - sebbene diverse associazioni denuncino come il commercio incontrollato di questi anfibi ne stia mettendo in pericolo l’esistenza anche in altre parti del mondo e stia complicando la sopravvivenza degli ecosistemi nei quali sono allevate -, resta però un dubbio più universale sul senso di una cucina che per proporre piatti della tradizione deve ricorrere a ingredienti che arrivano da lontano. Più che cucina della tradizione a me sembra cucina della nostalgia.
Uno stratagemma per restare attaccati, anche gastronomicamente, al passato. Una cucina che assomiglia a una rievocazione storica, che può essere anche interessante e certamente emozionante per qualcuno, ma che resta pur sempre una rappresentazione, talvolta un po' straniante, quando non grottesca di qualcosa che non esiste più. Una cucina, tra l’altro, che non solo ci dà un’immagine fuorviante del luogo nel quale siamo, ma che non tiene conto dei danni ambientali necessari per riprodurla.
Piatti perduti
E allora quei piatti sono persi per sempre? Alcuni probabilmente sì, altri, invece, possono essere ripensati e aggiornati ai tempi moderni. È il caso dello spiedo bresciano, per esempio, un piatto che nella sua versione originale è molto raro trovare. Lo spiedo, infatti, prevede che insieme agli involtini di maiale e salvia chiamati ombolini vi siano gli uccellini: volatili di dimensioni molto piccole la cui caccia e commercializzazione è vietata da una legge del 1992.
Oggi la maggior parte di chi propone lo spiedo bresciano nel proprio locale esclude gli uccelli o fa ricorso a specie ammesse, come la starna o il colombaccio, oppure si avvale di una legge, molto contestata, approvata nel 2022 dal consiglio regionale lombardo che prova ad aggirare il problema consentendo al ristoratore di cucinare gli uccellini a patto che siano regalati dall’avventore.
Si tratta di soluzioni più o meno efficaci che però, di nuovo, non sembrano tenere in considerazione il fatto che l’ambiente nel quale siamo cambia e con esso dovrebbe cambiare anche la cucina, a partire proprio da quella tradizionale. Per questo a me sembra più interessante la proposta fatta qualche anno fa da Michele Valotti alla Madia di Brione, un paesino tra Iseo e Brescia. Michele sostiene che non possa esistere cucina di tradizione senza prodotti del territorio e così ha sostituito agli uccellini le teste delle sardine essiccate del lago di Iseo, ottenendo un risultato che ricorda molto da vicino quello originale, impiegando però un prodotto di prossimità ed esente da problemi.
Una soluzione che mette in evidenza come la cucina tradizionale per essere tale debba concentrarsi sul presente più che sul passato, pena diventare totalmente fasulla pur di sembrare vera.
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