Spiace doverlo ricordare: non ci sono particolari indizi che la vittoria agli Europei di calcio significhi una ripresa dell’Italia. Un pallone è un pallone è un pallone, e qui nessuno si sogna di sottovalutare il fatto che la vittoria di Mancini e i suoi ragazzi porti bene al calcio (alle quotazioni in particolare) e possa, forse, addirittura, facilitare un pallone d’oro italiano.

Nessuna rinascita

Tutto bene, tutto bello, anche qui si è festeggiata la finale di Wembley in modo non del tutto sobrio. Ma da qui a parlare di «rinascita dopo il Covid», del fatto che «la coppa rafforza anche Draghi in Europa», o che «il calcio ci rilancia anche in Ue» – si citano titoli di quotidiani italiani prestigiosi; si omettono i nomi dei giornali per pietà – ce ne passa.

Di fronte a tanta gioia indiscriminata verrebbe da ricordare che il trionfo italiano ai mondiali del 1934 e del 1938 non è stato tra i prodromi di un momento storicamente felice, pure facendo un po’ la figura dei menagramo di fronte a tanto entusiasmo (ripetiamo, posticcio) tra la pubblicistica italiana di fronte al presunto magic moment degli italici spirti dopo, o durante, il disastro Coronavirus. 

Un pallone è un pallone è un pallone, un cantante un cantante è un cantante. O un gruppo. E anche il fatto che i Måneskin abbiano vinto l’Eurofestival non è – data la portanza artistica del festivalone europeo, nel quale si sono sempre esibiti gruppi oscuri di eurodance che sembravano tirati fuori di peso dal film Borat – indice di un Risorgimento, meno che mai di un Rinascimento.

Anche qui, niente contro i Måneskin, le cui canzoni sono gradevoli, e il cui apparato trasgressivo è innovativo come il tambuto di Alstair Crowley. Si può voler bene a Damiano e Victoria e tutti loro, e continuare a pensare che, decisamente, non saranno la soluzione dei mali d’Italia. Come non lo sarà la Nazionale di Mancini, come non lo sarà Berrettini in finale a Wimbledon, perché una palla è una palla è una palla, non un Rinascimento. 

In tutti e tre i casi non si tratta di soluzioni, né di rinascite, piuttosto di sintomi e di evidenze rappresentative. Molto interessanti come sintomi di un atteggiamento culturale. 

Politici e influencer

La ricerca furiosa del testimonial che fornisce la testimonianza decisiva, dell’influencer anche politicamente, economicamente, esistenzialmente, influente. Dell’icona come rimando a qualcosa, ad altro, possibilmente a un tutto; urgentemente: a un tutto rassicurante. In breve del tizio che si occupa di qualcosa ma diventa, in qualche bizzarra proiezione del desiderio, il simbolo decisivo di una qualche totalità, è un elemento fondamentale della pop culture. L’icona pop ha una teleologia, vale a dire, risponde a certi fini, di solito commerciali; solo che abbiamo l’irresistibile tendenza a vederci dietro una teologia, una forma suprema, un destino.

Nulla di cui scandalizzarsi, fa anche questo parte del gioco della rappresentazione moderna, del modo di stare al mondo ipermoderno, ovvero una riproposizione in chiave tecnologica di categorie etico/storiche antiche, novecentescamente ideologiche, dopo la botta di distruzione rappresentativa del post-moderno, ormai fuori misura almeno dal 2001. Nulla di cui scandalizzarsi, per esempio, se l’influencer è diventato l’interlocutore dei politici su temi sensibili. Non ci si scandalizza a vedere Renzi, in dissenso sul Ddl Zan che chiede a Chiara Ferragni un confronto sui contenuti, perché è un indice perfetto della mentalità vigente.

Un politico, un decisore, un commesso dello stato pagato dallo stato (anche da quello che sta attuando il Rinascimento saudita a quanto pare, ma questa è un’altra triste storia) per prendere e attuare decisioni politiche che chiede il confronto a una rispettabile influencer dal ramo moda, sposata con un influencer del ramo musica, su un tema che non riguarda né la moda né la musica, ma se mai la qualità di influencer, di simbolo, di presunto Tutto, sulla pubblica opinione. Al di là degli strascichi (la diretta di Fedez, la risposta del segretario di Italia Viva a In onda), Renzi ha mostrato di dare per interiorizzata in modo acritico questa impostazione, il che fa venire in mente una famosa risposta di Ennio Flaiano: «Pensa che la televisione abbia abbassato il livello culturale degli italiani? Penso che abbia abbassato il livello culturale degli intellettuali». Valeva per la televisione prima. Vale per i social, e per i politici, adesso. 

Populismo culturale

Sul fatto che la semplificazione pop non abbia sempre un impatto positivo c’è stato un bell’articolo (di Seth Moskowitz ripreso da Persuasion) a proposito dei meme, qualche giorno fa, su questo giornale. Che del resto ha dedicato un numero intero alla scomparsa di Raffaella Carrà, una donna di spettacolo pura e ferrata nel suo mestiere, che è stata, è vero, anche un’icona di liberazione, ma semmai in modo preterintenzionale. Il contrario dell’attuale influencer. 

Qui bisogna ricordare che la presunta onnipotenza del pop ha qualcosa in comune non solo linguisticamente, con un latente populismo culturale. Che la stagione politica inaugurata da Mario Draghi e dal suo staff vuole presentarsi in modo opposto, molto meno pop, rispetto a quella orchestrata da Rocco Casalino. E poi, molto più banalmente, bisognerebbe tenere a mente che le palline sono palline, i palloni palloni, la canzoni canzoni, i vestiti vestiti, e che i simboli salvifici e/o progressivi sarebbero fatti di altro. 

Giusto per non tirare giornata sotto al tallone del pop a tutti i costi.

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