Il mondo si fa piatto ma le teorie cospirazioniste c’entrano nulla. Non è una questione di terrapiattismo, di geografia come cartografia del pensiero dominante, ma piuttosto di orizzontalizzazione spinta del quotidiano. Un misterioso solvente ha spazzato via l’assetto tridimensionale del nostro vivere individuale, le prospettive di lungo, largo e profondo. Rimane appunto la dimensione piatta, quella che ci riesce di percepire dalla prospettiva personale, assolutamente orizzontale nonché schermata dai limiti di visione fisici e mentali che fanno da tara a ciascuno di noi. 

Proprio la metafora dell’appiattimento è al centro dell’ultimo libro pubblicato da Olivier Roy, L’aplatissement du monde. La crise de la culture et l’empire des normes (Seuil, 2023). Politologo, islamista, docente presso l’Istituto Universitario Europeo di Fiesole, Roy ha riflettuto in questo libro sulla dissoluzione del concetto di cultura (sia nella sua versione antropologica da intendersi come complesso delle strutture che orientano la nostra interpretazione del mondo, sia nella sua versione di “cultura alta” che produce le forme dell’egemonia sociale) e individua quattro fattori del grande mutamento: l’irrompere sulla scena dei movimenti giovanili di fine anni Sessanta, la globalizzazione, internet e il neoliberalismo. Il mix di questi elementi impatta sul quotidiano e ridisegna le strutture sociali facendo smarrire le simmetrie e asimmetrie che erano state edificate nello spazio della modernità. Abbiamo incontrato l’autore all’Institut Français di Firenze, a margine di una conferenza coordinata da Annick Magnier.

La sua metafora dell’appiattimento è molto netta. Come la spiegherebbe a chi non ha letto il libro?

Stiamo attraversando una crisi della trascendenza. Le religioni, le ideologie, le grandi credenze, perdono capacità di influenza. La conseguenza è un’individualizzazione di massa, che presenta due aspetti: uno che riguarda la sfera in alto rispetto al soggetto e uno che riguarda la sfera in basso rispetto al soggetto. Con riferimento alla prima sfera, c’è un affrancamento generale dal sistema dei valori e dall’etica pubblica con assegnazione di un primato ai desideri individuali. Con riferimento alla seconda, c’è una sempre più diretta proiezione verso il mondo animale. Per la tradizione occidentale l’uomo è collocato a metà strada fra Dio e la bestia. Nel tempo presente questa architettura tende a scomparire.

Assistiamo allo sviluppo della tematica sul diritto degli animali, e sulla stessa linea si muovono la sensibilità antispecista e la cultura vegana. L’essere umano non è più razionale, bensì senziente. E il suo essere senziente anziché razionale pone la sofferenza al centro dell’identità. Ciò ha conseguenze in termini di identità politiche. A destra si parla di invasione e di grande sostituzione, a sinistra si pone la questione delle discriminazioni come quelle razziali o di genere. E ciascuna di queste posizioni è espressione di una sofferenza.

Nel libro lei insiste molto sul modo in cui sono cambiati i rapporti fra mondo umano e mondo animale, tanto che nella premessa cita il caso della donna che voleva prendere un volo di United Airlines portando accanto a sé un pavone, con tanto di posto assegnato. Giusto nei giorni scorsi un settimanale italiano ha messo in copertina la foto di due animali domestici, dando il titolo Nuovi figli. E forse la vera sostituzione è questa, nel quadro di una società sempre più post-familiare, post-procreativa, post-sessuale?

Sì, assolutamente. E va in questo senso anche il caso della donna che nel corso dell’udienza papale ha chiesto a papa Francesco di benedirle il cane. Sembra una cosa assurda e lo sembra anche il fatto che molti haters in rete siano anche convinti animalisti. Tanto odio per le persone, tanto amore per gli animali. E invece ciò risulta normale, in questo tempo. È l’effetto di quelle che nel libro chiamo subculture, che non sono quelle tradizionali degli studi politologici o sociologici, ma un prodotto di internet. Sulla rete si creano aggregazioni fra persone simili per idee, gusti, paure. E coloro che non rientrano nei profili subculturali vengono esclusi. Persone che non sono in alcun contatto fra loro ma che si uniscono perché condividono la passione per Harry Potter, o per il manga. Va a finire che si dialoga solo con le persone che ci assomigliano. E in questo c’è una chiara dimensione narcisista.

Il suo concetto di subcultura dà idea di una società estremamente frammentata. Ma allora, senza rischiare di passare per thatcheriani, esiste ancora una cosa chiamata società?

Le subculture sono sempre esistite, i sociologi se ne occupano dagli anni Venti. Ma quelle di vecchio tipo avevano una tendenza inglobante. Per esempio la subcultura operaia, che si inseriva in un contesto di rapporti complessi, era agganciata a un’architettura unitaria che strutturava tutto insieme e nel quale l’operaio poteva partecipare facendo anche attività non connesse alla sua identità da operaio. Oggi non c’è più questo tutto inglobante, è come se si fosse creata una frattura tra le subculture create da internet e la vita quotidiana.

Fra i temi proposti nel libro ce n’è uno che ci sembra particolarmente significativo: l’indebolimento della cultura, intesa nel suo senso unificante e integrante, apre la strada alla giuridificazione e alla iperregolamentazione del quotidiano. Non c’è più spazio per il vuoto normativo perché in quel vuoto il consenso è sostituito dalla propensione al conflitto. Stiamo andando verso l’estremizzazione dell’idea weberiana della gabbia d’acciaio?

Vogliamo sempre più che tutto sia esplicitato, la nostra vita si trasforma in una serie di procedure. E questo viene a toccare anche le parti più profonde della nostra vita, compreso il livello dell’intimità. Si ha appiattimento del mondo anche attraverso questa perdita dell’implicito e dell’intimità. Adesso l’intimità è ampiamente esposta attraverso i social. Inoltre i giovani di questa epoca hanno tutta un’altra visione di cosa è l’intimità. Hanno voglia di esporsi, di farsi vedere, ma al tempo stesso chiedono rispetto. E in questo ci vedo un’altra espressione della sofferenza. Mostro il mio corpo, ma nessuno deve arrogarsi il diritto di dire che sono grasso o grassa e anzi ho orgoglio di esserlo. Dunque abbiamo questi paradossi della normatività, il fatto di non voler soffrire, di avere un safe space, di espellere ogni possibilità di contraddittorio. Cerco l’esposizione ma non voglio essere esposto a ciò che non amo. E qui si ha un cortocircuito fra ansia di libertà d’espressione e ansia di censura.

Non possiamo non parlare della pandemia, che volenti o nolenti è stata un esperimento di controllo biopolitico. Quanto ha inciso tutto ciò nella dinamica di appiattimento?

Penso che soprattutto abbia accentuato e legittimato questa nuova forma di relazione sociale di tipo virtuale. Dal punto di vista pratico, perché la pandemia ci ha costretto a essere in una bolla. E abbiamo scoperto che il telelavoro può essere una cosa piacevole, così come poter fare quotidianamente le video-chiamate ai figli lontani. Ma era un processo già in corso e in questo senso internet è stato uno strumento di accelerazione.

Nelle pagine del libro lei insiste sul tema del narcisismo. Un tema che andrebbe legato alla questione della verità, della fine che essa fa nell’appiattimento da lei descritto come cifra del mutamento sociale.

Sì, esiste questo nesso fra verità e narcisismo. S’impone il discorso della “mia verità”, che è “quella vera e è più bella della vostra”. E però io credo che anche per i soggetti entrati in questo meccanismo vi sia un senso di mancanza della verità vera, delle verità del passato. Vedo l’esistenza di una struttura del genere nelle idee complottiste che circolano con frequenza maggiore. Ogni complottismo ha un autore originario che quasi mai conosciamo quando decidiamo di sposare la sua narrazione, ma in questa nostra scelta scorgo qualcosa di nostalgico verso il passato. La verità ci gratifica, ma abbiamo anche nostalgia di una verità collettiva della quale andiamo in cerca.

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