(Puntate precedenti... Siena, 8 settembre 1985. Inviato a seguire il dramma di Italo Calvino, colpito da ictus, il giovane cronista Leo si ritrova in un intrigo più grande di lui. È in possesso di un manoscritto che scotta e ha stretto un patto segreto con Giorgio S., l’amico giornalista che tutti credono rapito da terroristi. Solo e insonne nella sua camera d’albergo, Leo passa una notte lunghissima)
- Questo articolo è tratto dal nostro mensile Finzioni, disponibile sulla app di Domani, sullo sfogliatore online e in edicola.
Una domenica di luglio e piove a Milano come se fosse novembre. Sto scrivendo la ventunesima puntata del romanzetto, quarant’anni dopo che si sono svolti i fatti. Ricordo che per il resto di quella notte in albergo a Siena non chiusi occhio dall’agitazione. Soltanto verso l’alba (era domenica anche allora) crollai seduto in poltrona, stecchito come un uccellino sorpreso da una gelata sul ramo di un albero. Non durò a lungo. Una voce maschile mi ridestò di colpo.
Era la voce impostata di chi ha studiato dizione. Pensai appartenesse a una entità metafisica venuta a convocarmi per un interrogatorio come credo succederà a noi tutti il giorno del giudizio universale. Perché ha mentito al suo Capo? Perché non gli ha detto la verità su Giorgio S., il suo amico e collega fuggiasco? Perché nasconde il manoscritto inedito del romanzo di un grande scrittore?
Poi capii che si trattava della mia radiosveglia, una meraviglia della tecnica comprata al duty free dell’aeroporto di Amsterdam, un astuccio nero e blu, grande come mezzo pacchetto di sigarette, che prendeva tutti i canali del mondo. Si era accesa puntuale alle otto, l’ora del giornale radio, e la voce, autorevole e metallica che sentivo, apparteneva allo speaker. Ascoltandolo compresi la gravità della mia situazione. L’edizione più importante del giornale radio parlava di me.
La notizia d’apertura era il rapimento del cronista Giorgio S. da parte di un gruppo terrorista. Mentre lo speaker leggeva, il mio sguardo vagò per la stanza e si posò sul letto dove non avevo dormito ma che portava ancora la traccia di Giorgio nel punto in cui si era seduto per bere un whisky prima di dileguarsi. Avevo gli occhi umidi e un groppo alla gola.
La seconda notizia del giornale radio era su Italo Calvino, sul decorso post-operatorio che procedeva senza complicazioni, sulla telefonata fatta all’ospedale di Santa Maria della Scala dal Presidente della Repubblica per sincerarsi personalmente delle condizioni dello scrittore.
Mi alzai e spensi la radiosveglia. Avevo bisogno di silenzio. Fino a due giorni prima ero un giornalista (praticante) felice e sconosciuto e ora mi ero trasformato in uno che sapeva cose, sulle notizie d’apertura del GR1, di cui lo speaker era all’oscuro. Avevo un attacco di mitomania e credevo di essere al centro del mondo? O forse era soltanto un lunghissimo incubo e tutto ciò che pensavo di aver vissuto (il malore di Calvino, la mia corsa all’ospedale, la Underwood prestatami da Ginevra, Ginevra stessa, Giorgio rapito dai terroristi), non era mai accaduto nella realtà?
Da un momento all’altro mi sarei svegliato nella villa di Piazza Calda a Firenze, la casa di Mr. Blow, che dividevo con il pluridivorziato Giorgio, il quale, invece di essere prigioniero di una banda armata, armeggiava in cucina a preparare la colazione come ogni domenica mattina. Mi sembrava già di sentire il profumo del caffè all’americana che colava lentamente nell’apposita macchina lasciata lì dal legittimo proprietario della villa, il poco raccomandabile Mr. Blow di Detroit.
Mi pare perfino di sentire la voce di Giorgio che, come un padre premuroso, mi grida di alzarmi, che la domenica non si può sprecarla a letto, che lui è già sceso in città a prendere i giornali, praticamente tutti quelli dell’edicola, compito che veramente sarebbe toccato a me invece di ronfare. Quei giornali che sfoglieremo e commenteremo sorseggiando il caffè e sbocconcellando le brioche ancora calde, appena comprate da Rivoire in piazza della Signoria, beandoci del sole che filtra attraverso le artistiche e colorate vetrate della veranda di casa Blow.
Dove vogliamo pranzare? È sempre Giorgio a parlare una mattina di domenica che mi sembra lontana, irraggiungibile, perduta per sempre. Da Bibe o alla Cave di Maiano? Da Bibe andava a mangiare Montale, il grande poeta si era addirittura innamorato della figlia adolescente dell’oste e aveva scritto per lei dei versi come un sedicenne qualsiasi, chiamandola «reginetta di Saba».
Per il pranzo della domenica, per santificare il giorno di festa, noi due senza famiglia, soli, soletti (uno perché pluridivorziato come un divo di Hollywood, l’altro perché al momento sfidanzato, un momento che stava pericolosamente diventando troppo lungo), andavamo più spesso da Bibe.
A fine pasto, mentre sgranocchiavamo i biscotti di Prato intingendoli nel vino, secondo l’uso fiorentino, Giorgio mi avrebbe chiesto di raccontargli per l’ennesima volta la storia d’amore di Montale. Gli piaceva molto perché sosteneva che l’innamoramento di Montale per la reginetta di Bibe era simile al suo per Flora, la moglie del padrone del bar sotto la redazione del giornale, quella fica imperiale con le sue scollature vertiginose attraverso le quali si vedevano i seni, gonfi e morbidi, tremare leggermente ogni volta che digitava sul registratore di cassa lo scontrino della consumazione. Era molto generoso Giorgio, era una di quelle persone che vuole pagare sempre lui, ma quando andavamo al bar sotto il giornale il motivo vero per cui si precipitava alla cassa era per godersi, spettatore privilegiato in prima fila, il moto sussultorio e ondulatorio, il piccolo terremoto di carne ogni volta che Flora batteva sui tasti il conto.
Giorgio stravedeva per le donne. Era questo il motivo per cui era diventato un collezionista di matrimoni. Di solito, come gli aveva consigliato il suo amico americano, Mr. Blow, immancabile testimone dello sposo a ogni cerimonia, li celebrava a Las Vegas per ridurre al minimo le pratiche burocratiche e facilitare poi gli eventuali (immancabili) scioglimenti. Era molto sensibile alle grazie femminili, Giorgio, e ogni volta si innamorava perdutamente, come un sedicenne, come Montale della giovanissima Bibe, e per questo le sposava che, forse, era il suo modo di dedicare loro una poesia.
Era un grande, instancabile amatore Giorgio ed era così realizzato, sessualmente parlando, che non si eccitava mai vedendo un film porno. Ne vedeva molti, era un suo hobby (molto originale, lo so, addirittura strambo, ne convengo), ma non li vedeva per le ragioni per cui la gente li vede di solito. Li vedeva con l’acribia di un cinefilo che guarda Il settimo sigillo di Ingmar Bergman. E dico Bergman non a caso, perché Giorgio prediligeva i porno svedesi e, al termine della visione (che poi finiva sempre allo stesso modo con un’orgia colossale), si lanciava in sottili disquisizioni estetiche su piani sequenza, fotografia, scenografia…
Confesso che aveva contagiato anche me con quella sua bizzarra e casta mania per il porno, ma io, non avendo una vita sessuale attiva e varia come la sua, non riuscivo a restare impassibile e, confesso anche questo, spesso guardavo le attrici nude e sderenate di quelle pellicole immaginando al loro posto la cassiera del bar sotto il giornale.
Io a Giorgio dicevo tutto, così come lui diceva tutto a me, era il patto su cui avevamo fondato la nostra amicizia, ma che ero innamorato perso di Flora, che nella mia pornografia privata la cassiera rivestiva il ruolo di star assoluta, non glielo avrei detto mai. Custodivo questo segreto a tenuta stagna, sapendo quanto Giorgio ne fosse geloso. Una volta mi aveva confidato che alla fine sarebbe stata Flora l’ultima donna che avrebbe sposato e dopo di lei nessun’altra. Ma era ancora troppo presto.
Purtroppo non ero a Firenze da Bibe. Ero a Siena, chiuso in una stanza d’albergo una domenica così diversa dalle mie solite domeniche. E i miei segreti non erano più quelli di una cotta non dichiarata per una cassiera, ma quelli, angosciosi e cupi, di un manoscritto che scottava e di una menzogna detta al mio Capo.
Decisi di uscire, prendere una boccata d’aria. Stavo lavandomi i denti quando suonò il telefono. Era il Capo con una voce che sembrava provenire dall’oltretomba. «Hanno trovato il corpo di un uomo. In un casolare vicino a Grosseto, dove Giorgio aveva l’appuntamento».
Mi si gelò il sangue.
«Ma è Giorgio?».
«No. Quelli della Digos pensano si tratti dell’informatore che doveva incontrare. È stato ammazzato con un colpo di pistola».
Restai in silenzio, incapace di respirare.
(Fine ventunesima puntata – continua)
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