Una gentile infermiera di nome Ginevra (allora la gente voleva bene ai giornalisti) mi mise a disposizione una macchina per scrivere. Accipicchia! Era una Underwood, una sciccheria da collezionisti, la macchina di Dashiell Hammett. Come era finita in ospedale? Mi sembrò di buon augurio per il mio articolo.

Battei il pezzo e lo dettai ai dimafonisti che lo avrebbero trascritto e consegnato a ToroSeduto, il capocronista, il quale lo aspettava, fumando Ms e succhiando Polo, caramelle di moda in quegli anni («Il buco con la menta intorno» diceva la pubblicità). Fumare tabacco e succhiare mentine nello stesso tempo! Non ero Sigmund Freud ma era chiaro che ToroSeduto aveva un conto aperto con il seno materno, che era stato un poppante con problemi di allattamento. L’invidia penis è l’invidia penis, ma anche l’invidia uberis, o come cavolo si chiamano le tette in latino, ha mietuto innumerevoli vittime.

Era il mio primo pezzo da prima pagina e magari, se facevo uno scoop, la direzione del giornale a Roma stavolta mi assumeva. Erano cinque anni che lavoravo da precario, ma non coltivavo troppe illusioni a causa di una sfortunatissima coincidenza.

Un paio di anni prima c’era stata una festicciola di redazione a Firenze in onore del direttore che era venuto a trovarci. Facemmo tardi ed esagerammo con i brindisi (i miei a colpi di Martini). Mi ubriacai e a un certo punto tirai fuori la faccenda del noto psicoanalista fiorentino che aveva sedotto una paziente, cioè Lauretta, la mia ex ragazza finita sul suo lettino prostrata dal lutto per la morte del padre. Il direttore sbiancò al mio racconto. Lui era cugino primo di quel malfattore. Avevo commesso una gaffe colossale. Il direttore pensò che l’avessi fatto apposta (tutti i direttori vivono nel terrore di essere sputtanati) a gettare ombra sul buon nome di famiglia. Non sapevo nulla della loro parentela, lo giuro, ma lui non mi credette e se la legò al dito.

Ora lo scoop che poteva fargli cambiare idea ce l’avevo. Era la storia dei manoscritti (uno suo, l’altro mio) che ci eravamo scambiati con Calvino. Vi parrà incredibile ma nessuno dei due aveva fatto una copia di quei romanzi. Per cui in quel momento preciso Calvino possedeva il solo esemplare esistente del mio romanzo inedito (e questo non era materia di scoop). Ma lo era, materia di scoop, il fatto che io possedevo il solo esemplare esistente del nuovo romanzo di Calvino, quello in cui aveva deciso di voltare pagina, di darsi al pop (tra i personaggi spiccava una estatica e tormentata rockstar sudamericana con i suoi assoli di sax spaccacuore).

C’era un gioco che giocavamo allora noi cronisti. Consisteva nel farcire gli articoli di titoli o frasi di canzoni, libri, poesie, film. Vinceva chi faceva più citazioni. Divertimenti da pennivendoli, ma non soltanto da pennivendoli. Il campione nazionale assoluto di questo gioco non era un pennivendolo. Era Oreste Del Buono, un uomo dal curriculum sterminato: narratore, giornalista, critico letterario, cinematografico, fumettistico, traduttore di Flaubert, esperto di Chandler, compagno di liceo di don Milani, tifoso del Milan, biografo di Gianni Rivera, amante (ma levate alla parola ogni sfumatura di esultanza o di intrigo, era una relazione paciosa, affettuosa) della giornalista Lietta Tornabuoni (sorella di Lorenzo Tornabuoni, un bravo pittore che faceva curriculum pure lui) e, soprattutto, nipote per parte di madre di Teseo Tesei, il grande, valoroso eroe italiano della seconda guerra mondiale. Il giovane Oreste era cresciuto all’ombra di quella gloriosa leggenda pagando le spese dell’insostenibile confronto con lo zio Teseo.

Ero abbastanza amico di Oreste (lo chiamavo per nome, ci davamo del tu). In preda all’ansia, prima di mettermi a battere sui tasti della Underwood, gli avevo telefonato per fare una specie di prova generale del mio primo articolo da prima pagina.

Con la pazienza di chi conosce le ambasce che precedono (e forse determinano) ogni forma di scrittura, compresa quella di uno scribacchino quale ero io, Del Buono mi aveva ascoltato in silenzio fino a quando gli avevo detto del trasferimento di Calvino, avvenuto verso le quattro del pomeriggio di quell’interminabile 6 settembre, dalla periferia di Siena al cuore della città, dall’ospedale nuovo all’ospedale di Santa Maria della Scala vecchio di quasi mille anni. Allora Oreste, che sapeva ogni cosa, aveva interloquito: «Mi sembra un luogo più che appropriato trattandosi di Italo. Santa Maria della Scala era una volta un albergo per i viandanti di passaggio a Siena. I pellegrini che facevano la Via Francigena per raggiungere Roma e vedere il papa. Ma anche i soldati che partivano per le Crociate diretti a Santa Maria di Leuca. Lì si imbarcavano sulle navi per la Terrasanta. Non ti sembra un luogo uscito da un romanzo cavalleresco di Calvino?».

Conoscendo il suo pollo (io nella fattispecie), Oreste si rese conto di aver fatto un passo falso e si affrettò ad aggiungere: «Però adesso lascia perdere le suggestioni storico-letterarie. Non metterle nel pezzo. Nuda cronaca. Racconta minuto per minuto come quando si progetta una rapina in banca: ore dieci… ore dieci e cinque minuti… ore dieci e… Capisci? Niente giochetti, citazioni, stai schiscio. Non ti venga in mente di cominciare con puttanate tipo: “Se una notte di fine estate il viaggiatore Italo Calvino si fosse trovato nell’antica locanda di Santa Maria della Scala a Siena…”. Mi raccomando».

Come al solito, Oreste era prodigo di consigli, addirittura mi stava scalettando il pezzo che dovevo scrivere.

Ore 17:00 Le porte della sala Tac si aprono e la barella con Calvino, che si guarda intorno con aria spaesata, viene portata nel laboratorio di neuroradiologia e angiografia.

Ore 17:10 I medici iniettano un liquido di contrasto nel cervello dello scrittore per scoprire eventuali malformazioni. (Beh, questa è una scena che si presta a molte suggestioni, un liquido che penetra nel cervello di un romanziere e lo percorre curva dopo curva come i pellegrini sulla Via Francigena. Ma niente suggestioni, mi ha detto Del Buono. Attenermi allo stile degli svaligiatori di banche)

Ore 17:30 Il dottor Scalmani, che ha tenuto per mano Calvino nel viaggio in ambulanza da Grosseto a Siena, esce dalla stanza dei raggi X. Lo scrittore non può parlare essendo intubato, ma ha risposto a cenni alle domande dei medici. È un lieve miglioramento, ma le condizioni restano gravi.

Ore 17:35 Le parole del dottor Scalmani consolano un po’ la moglie dello scrittore: «È già qualcosa. Stamattina aveva perso conoscenza del tutto, non parlava, si toccava la testa come se avesse paura di non trovarla al suo posto».

Ore 17:45 La notizia si diffonde a macchia d’olio nei corridoi dell’ospedale. È tutto un sussurrare a bassa voce il nome dello scrittore. (Che voglia di citare C’era due volte il barone Lamberto di Rodari. Ma non devo).

Un tecnico di laboratorio, che si vanta di aver visto i telefilm di Nanni Loy tratti dai racconti di Calvino su Marcovaldo, ricorda d’essere morto dal ridere alla scena della colazione al bar in cui Marcovaldo vuole inzuppare la sua brioche nei cappuccini degli altri avventori. Il tecnico di laboratorio confonde tragicamente Marcovaldo con Specchio segreto, il programma che rese famoso Loy. (Qui, se Oreste non mi avesse tarpato le ali, che figata sarebbe citare La zia Julia e lo scribacchino di Vargas Llosa!)

Ore 17:55 L’infermiera mi ha preso a cuore e mi invita a seguirla. Si ferma davanti a una porta con la targhetta “Divisione di Neurochirurgia - Dottor Persico”. «Parla con lui per l’articolo» dice. Poi mi strizza l’occhio e va via. Busso.

(fine settima puntata, continua)

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