Mia zia era una casalinga. La Sardegna non era un posto che allora richiedesse due stipendi. Ma io ho sempre lavorato e contribuito al mio mantenimento. Ero all’ultimo anno di scuola quando sono andata da zia Annetta. Ho ricomprato tutti i libri a metà anno pur di non tornare a casa. La sera facevo la cameriera in una pizzeria, la mattina andavo a scuola.

È stata quella la prima tappa del lungo curriculum che poi ho mandato a Salvini. Secondo lui, che praticamente non ha mai lavorato, tra noi due ero io la radical chic. Fare la cameriera era un lavoro divertente, interessante, tutte le volte che ho potuto nella vita l’ho rifatto. Insegnare a portare i piatti è un buon metodo educativo. Poi ho fatto il grafico web, la programmatrice.

Era il periodo di Lot, il gioco di ruolo fantasy via chat più vecchio in Italia. Un gioco di ruolo in cui ogni azione era fatta solo di parole. Non c’era ancora la grafica, né le immagini o i video. In quella comunità di gioco ci sono stata per dieci anni ed è stata l’unica scuola di scrittura che mi potevo permettere. La mia scuola Holden. Dove ho imparato a scrivere e a costruire trame. È lì che ho simulato i caratteri dei personaggi che poi anni dopo sarebbero entrati nei miei romanzi, mentre ci passavo le notti in cui l’insonnia non mi dava pace. Soprattutto è lì, tra quei quarantamila giocatori, che ho incontrato alcune delle persone più importanti della mia vita, Alessandro Giammei fra tutti, uno dei miei figli d’anima, e affetti così duraturi da vincere persino il fatto che da anni nessuno di noi gioca più.

Lot è stata anche la mia scuola di informatica. È giocando online che ho imparato competenze di coding: le abbiamo imparate online tutti assieme, perché allora non c’erano ancora le interfacce What You See Is What You Get, quindi eri costretto a imparare il codice vero, e io l’ho imparato. Come fossi un’ingegnera informatica che usa Autocad, ho programmato vari siti con Dreamweaver.

Oggi non mi capacito di quello che ho fatto. Perché l’ho fatto studiando quel codice soltanto di notte. Oggi non ci riuscirei più. Ora siamo abituati ad app che sono tutte intuitive.

APPRENDISTATO ELFICO

Lot, una droga narrativa. Quando inizio a frequentare Internet il paesaggio è deserto, non c’è nulla, ci sono solo le chat irc che sono chat a scrittura continua, qualcosa che oggi è la preistoria dell’evoluzione tecnologica che verrà. Non c’erano ancora i blog, cominciavano a uscire i forum, l’Internet si stava popolando, YouTube ancora non esisteva, e tutto quel mondo doveva ancora svilupparsi. Prevedere Facebook in quel momento era impossibile, tanto meno i social network successivi.

Accade che stipulo un contratto telefonico con una compagnia che adesso non esiste più, si chiamava Blu e offriva tra i vari servizi anche una chat. Mi iscrivo a questa chat e inizio a parlare con delle persone che stavano dall’altra parte del mare. Era l’unico modo in cui potevo andare oltre i confini della mia geografia.

Lavoravo alla centrale termoelettrica di Oristano in quel momento. Entro in chat per curiosità. E un giorno in chat mi imbatto in un commercialista veneto mezzo matto. Che mi dice: «Ho visto che c’è una specie di community di gioco molto divertente. Ci sono i nani, i demoni, gli elfi. Andiamo a vedere, facciamo un po’ di scompiglio e ce ne andiamo».

Lui se ne va, io resto. Non c’è visualità, c’è soltanto testo. Tutto va descritto. Tutto va scritto. Le persone che sono lì dentro sono in grado di descrivere scenari, azioni, personaggi e trame con le parole. Fino a quel momento non avevo mai scritto nulla. Sono affascinata, è bellissimo. C’è la descrizione di una piazza, quella del mercato. C’è una fontana, attorno persone che comprano e vendono dei prodotti, un porticato sotto al quale si conversa; ci sono degli alchimisti con le loro esoteriche boccette, dei nobili avvolti da vesti elegantemente drappeggiate, dei popolani che cercano di fare acquisti, qualcuno viene imbrogliato, qualcun altro fa un affare.

Assisto per un’ora alla giocata in diretta. Uno scenario fantasy straordinario in cui ogni minuto di gioco corrisponde, come in un apologo di Borges, al minuto reale della vita di quei personaggi. Mentre sto per andarmene, da un vicolo arrivano due personaggi bardati di una veste rossa. Hanno una forza centripeta, calamitano gli sguardi di tutti, come se di colpo l’aria di tutta la piazza si fosse spostata, convergendo su di loro.

Uno si chiama Folkter, l’altro Nakkio. Allievo e maestro, stanno passeggiando. Sono Maghi Rossi. Il maestro assiste a una piccola truffa e interviene con un gesto magico per smascherarla. Sono sedotta. Rapita e stregata da quella potenza narrativa. Voglio partecipare, come si fa a giocare con voi? Devi studiare per un anno. Lo faccio. Inizio a studiare, a stare lì, a passarci le ore.

Lot era una community strutturatissima. Occorreva imparare molte regole: proprio perché non c’era una grafica di ancoraggio visivo, tutto doveva essere descritto e raccontato. Dovevi memorizzare una quantità di mappe, di luoghi, di stanze, per essere coerente nei movimenti nello spazio in relazione agli altri. Come in un romanzo o in un film. Mi hai raccontato tu che, prima di scrivere Il nome della rosa, Umberto Eco lo ha tutto disegnato, facendo una sorta di storyboard, in modo che gli spostamenti nello spazio e i dialoghi tra i personaggi fossero coerenti e sincronizzati nel tempo.

A Lot era lo stesso. Poi dovevi imparare la lingua della tua razza. Io ero un’elfa, avevo scelto la razza elfica, che parlava la lingua più difficile da imparare, e quindi ho iniziato a studiare anche l’elfico. Ho imparato passabilmente il Quenya e il Sindarin, le due varianti dell’elfico codificate da Tolkien stesso.

Dopo un anno ho fatto il primo esame, sono stata presa come novizia nell’Ordine dei Maghi del Crepuscolo e ho potuto andare in giro con la veste celeste per un altro anno. Ci ho messo due anni e mezzo a diventare mago e guadagnarmi la tunica rossa. Ho iniziato a stringere rapporti, perché si finisce a giocare con tutte le persone che ci sono. Erano quarantamila i personaggi, e la community funzionava ventiquattr’ore su ventiquattro. A qualunque ora del giorno o della notte ti connettessi, c’era qualcuno con cui poter giocare.

Era veramente appassionante, una droga narrativa molto divertente, uno scivolo verso la dipendenza. Gli altri mi prendevano per matta, catturata nelle spire di una setta, quando dicevo: «Stanotte ho dato l’esame da mago». Alessandro giocava come stregone. Nin è stato il mio primo allievo quando sono diventata mago. All’inizio conosci soltanto i personaggi, poi, attraverso Messenger, pian piano si entra in contatto anche con le persone.

Quello che allora succede è meraviglioso perché si tratta di un simulatore. Puoi fingere per un po’ con tutti. Puoi fingere per sempre con qualcuno. Non puoi fingere per sempre con tutti. Se sei uno stronzo sei uno stronzo. Se sei una persona eccezionale, anche. Vedo Alessandro scrivere. Non so chi c’è dietro. E penso che sia una persona eccezionale e adulta. Quando scopro che ha quindici anni capisco che, invece, ha dei margini eccezionali di crescita.

Da allora cominciamo a comportarci come responsabili l’una dell’altro. Quando l’ho conosciuto, Alessandro era uno studente liceale straordinario, di quelle intelligenze fulminanti che tu dici: di questo ne nasce uno su un milione. E io non posso non vederlo fiorire. Ci siamo conosciuti giocando, all’inizio scrivevamo e basta. E lui era un fuoriclasse. Abbiamo giocato insieme per molti mesi e non sapevo chi ci fosse dall’altra parte.

Quando ho scoperto che era un ragazzino, mi sono detta: «Se fa tali ragionamenti da adolescente, che fiore sboccerà? Io devo vedere questa aurora!». E quando abbiamo iniziato a scambiarci i libri ho capito che aveva letto più di me, che avevo il doppio dei suoi anni. A diciotto anni ha fatto l’editor di Accabadora. E ora, a trentacinque, insegna italianistica a Yale.

Ormai chi è Alessandro, quell’ex elfo stregone che mi sono scelta e che mi ha scelto? Mio figlio? Uno che mi consiglia i libri? Uno che curerà i miei diritti e i miei testi? Uno che conosce nel profondo tutti i mutamenti della mia vita? Io non so più se chiamarlo figlio. Oggi è un amico, come ho già detto, ma per molti versi anche un maestro. I rapporti cambiano e si invertono. Dentro la mia famiglia di scelta tutto è cambiato, i ruoli ruotano.

Nella famiglia tradizionale questo non avviene, perché è il sangue a determinarli. Un padre è un padre sempre. E a volte questa cosa è un ergastolo. Sia per il padre che per i figli. Quando ero una semplice neofita delle Vesti Rosse ebbi la fortuna di avere a capo del mio Ordine il magister Lowenas, un grande Shalafi dal quale ho imparato parecchie cose. Fu lui a insegnarmi che i maghi non sono quelli che fanno le magie, ma quelli che capiscono quando farle non serve.

Una volta mi tenne chiusa due giorni nella torre senza grimorio perché avevo fatto un incanto per ottenere un’informazione per cui, secondo lui, sarebbe bastata la mia intelligenza. Mi disse: «Se il potere di cui disponi serve solo a dimostrare se stesso, l’unica cosa che dimostra è il tuo limite. Fai vedere il tuo limite e sei morta».

Nella vita quella lezione mi è servita molte volte e tuttora, quando vedo qualcuno usare una posizione di forza solo per mantenere la forza stessa, me la ricordo e mi dico: «Ecco uno che ti fa la cortesia di svelarti il suo limite». Grazie, incauti potenti impotenti. Vedere un limite significa poterlo usare ed è la capacità di usarlo, non la magia, che fa di ogni Veste Rossa un mago in servizio permanente. Nuctemeron.


Da Ricordatemi come vi pare, Mondadori Strade blu, 2024

Michela Murgia amava il Salone, il Salone ama Michela Murgia

L’11 maggio, Ore 19:30-20:30 al Salone del Libro di Torino sarà ricordata Michela Murgia

Ricordatemi come vi pare Sala Oro, Pad. Oval con Maurizio de Giovanni, Alessandro Giammei, Valeria Parrella, Roberto Saviano, Chiara Tagliaferri e Chiara Valerio.

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