La sfida che la biennale architettura ha lanciato si può cogliere pienamente in quell’insistenza sul termine Together con cui il suo curatore, Hashim Sarkis, ne enuncia il programma, che assume il tono di un manifesto. Nel prendere atto della diseguaglianza crescente e della inadeguatezza della politica rispetto a una crisi che è insieme economica, climatica, antropologica, Sarkis si chiede come bisogna ripensare lo stare insieme. Al di là della perdita di credibilità delle istituzioni tradizionali, è infatti lo sfilacciarsi delle relazioni e della fiducia nel futuro che rende cupo l’orizzonte delle attese ed estremamente precario il rapporto col mondo circostante.

La perdita di spazi di confronto chiama allora in causa l’architettura che, sostiene Sarkis, ha il compito di dar forma alla città, nella consapevolezza che essa costituisce il luogo privilegiato in cui gli uomini possono pienamente esprimere la loro socievolezza. Sarkis cita, in proposito, la Politica di Aristotele. È noto che Aristotele definisce l’uomo come animale razionale e, allo stesso tempo, animale politico. La razionalità si esprime attraverso il dialogo e lo stare insieme agli altri costituisce la condizione fondamentale della convivenza umana, che si realizza, democraticamente, nel governo dei molti (Politeia). Sono temi, questi, che impongono all’architettura contemporanea di progettare l’abitare in funzione dell’esperienza che oggi viviamo dello spazio.

Un buon cinico

Nel 2004, in occasione della mostra Arti e architettura 1900-2000, tenutasi a Genova, Nicola Davide Angerame (l’Unità del 6 ottobre 2004) chiedeva al curatore, Germano Celant, di delineare le tendenze dell’architettura dei nostri giorni. Nelle sue risposte Celant poneva in evidenza il fatto che, dopo il Guggenheim di Bilbao, il pensiero architettonico «immagina ormai la società non tanto attraverso la funzione, quanto per l’impatto visivo e simbolico», dal momento che «l’edificio si è trasformato in emblema». Riguardo allo spazio abitativo Celant prendeva atto che l’architetto si rivela “un buon cinico” ed è fortemente condizionato dalla committenza.

A proposito alla città Celant contrapponeva i progetti di corto raggio della politica, con i tempi lunghissimi che richiede una seria programmazione dello sviluppo urbano, lasciando intendere che la rassegnazione prevale sulla speranza. Ciò che colpisce maggiormente riguarda la conclusione dell’intervista.

Il museo Guggenheim di Bilbao, in Spagna (Lucas Vallecillos / VWPics via AP Images)

Il design unificante

L’elemento unificante del fare artistico, in cui viene inclusa anche l’architettura, è identificato nel concetto di design, che ingloba, dichiarava testualmente Celant, «arte e body building, make-up e fotografia, cinema e musica, architettura e moda da cui si scatena la spettacolarizzazione delle arti, in cui tutto si fa feticcio, compresa l’architettura».

C’è da chiedersi se nel “cinismo” attribuito da Celant all’architettura del nostro tempo, in cui tutto diverrebbe feticcio, possiamo ancora trovare energie per pensare concretamente alla progettazione. Si fa fatica a comprendere come le forme di estetismo nichilista che posizioni di questo tipo esprimono possano contribuire a elaborare un’etica dell’abitare in grado di rispondere alle esigenze del presente.

Eccezione permanente

Questa tendenza trova espressione anche nella biennale architettura di quest’anno, in cui i confini tra arti visive e architettura, come hanno fatto notare su queste stesse pagine Stefano Casciani e Demetrio Paparoni, sembrano dileguarsi, relegando la funzionalità in un angolo. Se l’attenzione alla sostenibilità riporta alle esigenze concrete del presente, ci si rende anche conto della difficoltà di declinarla su una progettazione di vasta scala. La tentazione di realizzare un’architettura che divenga “feticcio”, secondo l’espressione di Celant, o anche una “archiscultura”, per citare Maurizio Fagiolo, è dunque ben radicata.

La pandemia globale, scrive Sarkis, rende la domanda posta da questa edizione della biennale architettura particolarmente rilevante. Il suo riferimento alla pandemia rinvia allo stato d’eccezione permanente che ha segnato, in questo periodo, la nostra vita quotidiana. È evidente che questo stato di eccezione può rafforzare quei modelli autoritari che ricordano «l’utopia della città perfettamente governata» descritta da Michel Foucault in Sorvegliare e punire.

Conta l’efficienza

Nelle nostre società aperte non mancano tuttavia comunità chiuse, come la sede di Google, a New York, e tutti i Googleplex, dalla Silicon Valley all’Europa. Questi ambienti, scrive Richard Sennett, sono stati concepiti in modo da impedire che stimoli esterni possano turbare il kósmos di Googleplex.

Il Googleplex, prosegue Sennett, fa pensare alla smart city sudcoreana di Songdo, il cui centro di controllo è chiamato “cabina di pilotaggio”. Qui è possibile calcolare l’emissione di anidride carbonica in un parco o verificare la posizione dei dipendenti. Una città così concepita diviene una smart city prescrittiva, come la definisce Sennett, in cui l’efficienza deve necessariamente prevalere sulla curiosità, che sta invece alla base di una società aperta, in cui prevale il pluralismo e la partecipazione diffusa.

La sede di Google (AP)

La città digitale

Sarkis fa riferimento ad Aristotele e Rawls. Quando Aristotele descrive il modello politico della Politeia non manca di evidenziarne le criticità, ma ammette che i molti, anche se non saranno eccellenti, come avviene nei governi aristocratici, possono essere superiori ai pochi, non sul piano individuale, «ma nella loro totalità, come lo sono i pranzi comuni rispetto a quelli allestiti a spese di uno solo».

Questi temi si ripropongono nella cosiddetta “città digitale” che oggi prende forma. Qui l’architetto non può scegliere di diventare artista visivo e gli edifici non possono trasformarsi in affascinanti simulacri. La città digitale nella quale vivremo non necessità di “archisculture”, ma di dimore e di spazi pubblici che, favorendo il dialogo, consentano il controllo democratico di processi sempre più tecnocratici.

Un coma abitativo

In ambito lavorativo, lo smart working, che in questo momento, a causa della pandemia, si presenta come la scelta più adeguata, può apparire come un’occasione per acquisire maggiore autonomia nella gestione della propria giornata, ma comporta anche una cesura rispetto alle consuete forme di socialità. Nel 2005 Tomás Maldonado esprimeva le sue riserve sulla domotica, una scelta progettuale che si proponeva l’informatizzazione e la virtualizzazione dello spazio domestico.

Riportava, in proposito, il giudizio di Paul Virilio, secondo il quale, in un mondo così strutturato, la nostra vita psichica si convertirebbe in un “coma abitativo”. A questa invasione del “pubblico”, in forma virtuale, nelle nostre case, corrisponde anche la privazione del rapporto io-tu e una inedita dilatazione del tempo che, in assenza di impegni esterni, porta con sé un grande senso di solitudine. L’esperienza della solitudine, subita più che scelta, associata a una tecnologia che promuove un approccio passivo, non può che tradursi in forme di omologazione, ma anche di disagio.

Happyland

Gli architetti sono dei catalizzatori, sostiene Sarkis, che devono suggerire modi di interazione sociale attraverso una saggia organizzazione degli spazi. La sua scelta di accogliere all’interno del progetto diverse figure professionali e cittadini può favorire un ripensamento delle città, condiviso da quanti le abitano.

Se la politica non è in grado di elaborare modi di stare insieme, saprà l’architettura, come si propone Sarkis, creare quel linguaggio comune in cui potranno riconoscersi i diversi soggetti che animano la complessità del presente? È significativo che alla domanda su come immaginava la città del futuro, Renzo Piano rispondesse, nel 2000, augurandosi che fosse come quella del passato, perché le realtà urbane contemporanee gli apparivano come obbrobri dalle periferie immonde o come «uno pseudo villaggio felice, una sorta di irreale happyland».

Oltre le primule

Cosa accade quando l’impegno civile dell’architetto incontra l’ambito dell’agire politico, che non si rivolge di solito a prospettive di ampio respiro, ma è attento all’effetto immediato? La spettacolarizzazione può allora prevalere sulla funzione, facendo dell’architetto quel “buon cinico” di cui parlava Celant. Si pensi all’emergenza sanitaria che non abbiamo ancora superato e all’esigenza di trovare spazi che potessero garantire agevolmente la somministrazione dei vaccini a larghe fasce della popolazione.

Tutti ricorderanno l’enfasi con cui venne presentata l’inopportuna quanto costosa trovata delle “primule”, accompagnata dallo slogan "L’Italia rinasce con un fiore”. E tutti siamo grati alle scelte pragmatiche, che non sono state adottate da architetti, di archiviare quella soluzione per adottare pratiche più efficaci.

Quando l’architettura saprà ripensare il together proposto da questa biennale in termini di funzionalità, di efficienza e di bellezza, senza cedere alle seduzioni dei simulacri e alle lusinghe del potere politico, il nuovo contratto spaziale al centro del programma di Sarkis sarà per tutti più credibile.

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