In molto lavoro artistico di oggi si sente l’istanza del passato, remoto o prossimo che sia. Soprattutto in campo pittorico, la storia dell’arte, i suoi linguaggi ereditati dalla tradizione e soprattutto il suo immaginario diventano punti di partenza per le  nuove ricerche. Lo vediamo nelle mostre di artisti già affermati, come Francesco De Grandi, Oscar Giaconia, Pietro Roccasalva, Nicola Samorì o Nicola Verlato, solo per fare alcuni nomi, oggi avviati alla mezza età. In questi casi si tratta di una pittura figurativa sostenuta da riflessioni sulla natura del lavoro artistico. È questo che rende interessanti simili esiti, il fatto che non partano da un semplice, immediato bisogno di esprimersi, ma che intendano costruire una visione dell’arte, ma anche del mondo.

Fra tutti, Nicola Samorì (45 anni, classe 1977) si distingue per un suo singolare modo di procedere, che guarda alla pittura del passato senza volontà citazionista, piuttosto con l’intenzione di avvicinarla con intenti decostruttivi dell’immagine e della sua compostezza.

Atto distruttivo

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Samorì prima dipinge imitando alla perfezione la pittura barocca, italiana e spagnola in particolare, per la quale ha una vera predilezione a causa dei soggetti e degli impasti di colore. Si potrebbe dire che il suo primo atto è quello del falsario perché le immagini di Samorì, grazie alla indiscutibile conoscenza delle tecniche pittoriche, sono perfettamente credibili. Vengono semmai essenzializzate, con l’eliminazione di particolari esornativi.

Poi viene l’atto artistico vero e proprio, che diviene distruttivo di ciò che l’artista stesso ha creato dipingendo. Su tela, ma prevalentemente su superfici metalliche, lignee o di pietra, predilette perché più facilmente si può incidere nella pasta pittorica con dei bisturi o quant’altro, Samorì lavora letteralmente “per via di levare”.  Squarcia la tela, taglia e asporta la materia pittorica creando lacune che modificano l’assetto dell’immagine, rivelando lo sfondo materico, infondendo nell’opera un’espressività straniante, a volte respingente.

Il peso della pittura

La mostra Sfregi di Nicola Samorì a Bologna

Per Samorì la pittura è un’entità fisica, non è una pura immagine da osservare frontalmente, come insegna la nostra tradizione dalle icone bizantine in poi su quella scia ininterrotta di sacralità che le colloca comunque nell’intoccabile. La pittura ha un peso, dice l’artista, e andrebbe vista di lato, da dietro, per coglierne la materialità, per far capire come è fatta, ma non nel senso di Giulio Paolini che nel 1962 esponeva il telaio, il retro della tela, in un intento analitico della pittura intesa come repertorio linguistico. Qui non c’è intento riflessivo, c’è la sensualità quasi istintiva che spinge a manipolare la pittura per rivelarne l’interiorità nascosta, c’è un desiderio quasi infantile di vedere cosa c’è dentro il giocattolo.

In una mostra da poco conclusasi a Sassoferrato, nelle Marche, Samorì è stato invitato ad un confronto con la pittura di Giovan Battista Salvi (1609-1685), detto appunto il Sassoferrato. L’artista ha ripreso un tema tipico del pittore antico, il volto di Maria, ma lo ha dipinto su un geode, una pietra che reca al suo interno una cavità, e che, sezionata, costituisce il supporto lacunoso della pittura. Così dieci ritratti della Madonna sono dipinti intorno a questa lacuna, mancando proprio del volto, ciò che dà senso a un ritratto. In un caso l’immagine scompare quasi del tutto e lascia il posto alla pietra e alla sua morfologia. Ha scritto in proposito Samorì: «Il silenzio della pietra cerca di essere occupato con precisione dal perimetro del volto, che a poco a poco viene letteralmente divorato dal geode, che si apre e si allarga, caricandosi di concrezioni. L’astrazione è il destino di quell’immagine perché del corpo resta solo un’allusione in forma di ferita minerale».

Volti sfatti

La mostra Sfregi di Nicola Samorì a Bologna

In una mostra antologica del 2021, presso il bolognese Palazzo Fava, si poteva ammirare la produzione dell’artista, che ha iniziato questo tipo di lavoro dal secondo decennio del Duemila. Santi, martiri e altre figure sacre mostrano il volto completamente sfatto dai tagli inferti alla tela: un santo eremita osserva in alto la grande macchia grigia, informe e colante che sta per abbattersi su di lui, mentre di una Vergine restano solo gli occhi, poiché la parte rimanente dell’immagine è stata scorticata e lasciata cadere a terra, ammucchiata nella teca trasparente che protegge il dipinto incorniciato.

Nel ciclo intitolato Cammino cannibale del 2019, invece, la figura di un Marsia legato alla colonna prima di essere scorticato da Apollo ci appare in sei successivi strappi da un affresco, offrendoci le drammatiche fasi della sua scomparsa, agglutinato dal fondo pittorico che sembra marcescente, fino a sfumare in un informe color ocra.

Diverse tele una volta terminate sono state parzialmente tagliate e ripiegate o arrotolate sulla superficie, a deformare l’immagine originaria rivelando spesso un sfondo non meno espressivo.

Umanità in sommovimento

I formati e le dimensioni dei dipinti variano, e possono arrivare alla monumentalità, come nel caso della mostra che gli ha dedicato a Lipsia la Galleria Eigen+Art, conclusasi alla fine di ottobre. La mostra comprendeva Campo dei Miracoli, un dipinto di cinque metri di altezza per otto di larghezza, interamente realizzato con monotipi, cioè con immagini dipinte su carte poi applicate alla superficie, che infatti appare suddivisa in scomparti. Virato nei colori dal rosa al bianco al nero questo dipinto colpisce per l’indecidibilità dei soggetti, delle immagini che assiepano densissime il piano rendendolo brulicante di segni ambigui.

Corpi umani, frammenti di corpo, oggetti, semplici macchie, in una generale atmosfera apocalittica che dà vita a un’umanità, a un universo in sommovimento. Si tratta in realtà dell’ingrandimento di ciò che quotidianamente l’artista trova su un suo tavolo da lavoro. È ancora Samorì a spiegarcelo: «Campo dei miracoli è il ritratto dall’alto di uno dei tavoli da lavoro del mio studio, dove negli anni ha preso forma in modo del tutto istintivo e illogico una congerie di presenze che sembrano un campo di battaglia, un ossario, una wunderkammer».

Codici espressivi

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C’è anche la scultura nella pratica di Samorì, una pratica che già prevede il corpo a corpo dell’artefice con la sua materia e che qui si esprime “levando” nel vero senso della parola, per svuotamento di volumi marmorei, per corrosione di busti richiamanti l’antico, per scavo nel legno, assecondando la struttura dell’elemento naturale.

Di certo un forte senso drammatico attraversa tutta l’opera dell’artista ma questo non sembra causato dai suoi atti aggressivi. Piuttosto questi inquietanti resti di un passato nobile sembrano generare essi stessi la propria putrescenza, come fossero in balia di una loro mutazione genetica, una tensione endogena che le trasforma, o deforma, che le mutila o per meglio dire le scarnifica, visto che l’atto preferito dell’artista è proprio quello di “spellare” le sue pitture. 

Ma levare significa anche svelare: a ben vedere più che tragiche le opere di Samorì sono ambigue, più che di morte ci parlano di rinascita alla forma, al senso, conquistata grazie a una metamorfosi che rende le immagini tutte “non risolte” come ha giustamente notato il critico Davide Ferri; esse non sono risolte perché sono figure di passaggio da un immaginario a un altro, da un passato in via di disfacimento a un presente tutto da inventare grazie a gesti che, per via di levare, pongono non un disordine ma un diverso ordine visivo. Diventano fondativi e, non a caso, fondano ogni opera su un marcato senso della simmetria.

È una questione di codici espressivi. Samorì adotta il codice cristiano, come lui stesso lo definisce: la figura del corpo martoriato appartiene profondamente alla nostra cultura. Essa rimanda all’idea di una conoscenza del mondo raggiunta attraverso l’esperienza autentica, e perciò dolorosa, del reale, attraverso l’apertura anche traumatica dell’Io all’Altro, ciò che la ferita del Cristo altamente simboleggia, e non solo per i credenti.

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