Il corpo a corpo di scrittura che Lea Melandri intesse con Otto Weininger nel Dialogo tra una femminista e un misogino è un distillato del pensiero della più ardente testimone, e memoria storica, delle pratiche del femminismo degli anni Settanta. Edito da Bollati Boringhieri, è il frutto di una meticolosa e duratura frequentazione dell’autrice con un libro che ebbe ampia risonanza nel circuito di intellettuali europei di primo Novecento, Sesso e carattere. L’autore, come molti altri uomini della sua epoca, è costretto a confrontarsi con un soggetto politico emergente dai processi di globalizzazione e industrializzazione: la “donna nuova”.

La donna nuova crea organizzazioni, scrive di politica, pubblica giornali, crea conflitto, arringa le folle, indossa i pantaloni se le va. Pretende il divorzio, l’abolizione dell’istituto giuridico dell’autorizzazione maritale, pari salario sul lavoro, alfabetizzazione per le bambine, istruzione superiore e accesso alle professioni come gli uomini e, udite udite, persino il diritto di votare e di candidarsi alle elezioni – diritto che all’epoca era negato anche alla maggioranza degli uomini (il suffragio universale maschile arriva nel 1912).

Dipinta da larga parte della stampa come una virago, un mostro né donna né uomo, brutta, acida, ovviamente invertita e zitella, la donna nuova aveva alleati nel genere maschile, uomini che le fonti e la storiografia documentano come consapevoli dei propri privilegi e disposti a rinunciarvi in cambio di una maggiore libertà per tutti e tutte. Uomini “femministi”, come alcuni si definivano, che la satira sbeffeggiava al pari delle altre: gli stereotipi di genere si fanno più crudeli e polarizzati nella belle époque, quando la discesa in campo del femminismo organizzato mette a fuoco il dominio maschile, segnando un prima e un dopo nella lotta politica.

Un «singolare misogino»

Ma non è degli uomini femministi che si parla in questo libro e Otto Weininger non appartiene a questa schiera. Il filosofo viennese, morto suicida a 23 anni pochi mesi dopo la pubblicazione del libro, nel 1903, non mette in discussione l’impalcatura sessista di matrice platonico-aristotelica della cultura di cui si fa anzi portavoce: un «osservatore che ha ereditato e considera essenziale la visione patriarcale del mondo», scrive Melandri.

Eppure il suo testo è intrigante. Questo «singolare misogino» da un lato riproduce le credenze e gli stereotipi di genere della sua epoca, quelli che Mary Wollstonecraft aveva già tentato di demistificare almeno un secolo prima (anche lì c’era in ballo un filosofo, Jean-Jacques Rousseau). Ma, d’altra parte, scorge ed evidenzia le dinamiche di complicità, agite sia da parte maschile che femminile, che concorrono a perpetuare il dualismo sessuale.

In un frammento egli scrive: «Se la donna si mascolinizza divenendo logica ed etica, non sarebbe più adatta, come ora, a essere il substrato passivo di una proiezione, ma questo non è motivo sufficiente per educare la donna, come avviene al giorno d’oggi, esclusivamente per il marito e la prole, con una norma che le proibisce qualcosa perché è maschile». Questa apertura rispetto al possibile ruolo dell’educazione si spegne «nell’odio per la donna, in cui ha visto sia la sua salvezza sia la sua degenerazione», odio alimentato dall’influsso della morale cattolica, nell’analisi Melandri.

Presa di coscienza

È la sessualità il terreno d’elezione dell’analisi di Weininger. Ed è su questo terreno che il dialogo con il misogino dà all’autrice l’abbrivio per domande attuali, fondamentali. «Seduzione e maternità sono le due corazze (...) messe sul corpo della donna per segnare la sua indispensabilità all’uomo: al suo piacere sessuale e alla continuità della sua progenie. Weininger le ha viste e mostrate come appartenenti a una natura femminile inscritta nel cielo delle idee platoniche. Ma quante e quanti ancora oggi le considerano doti o funzioni normali del femminile? Chiedersi quanto contano la bellezza e la maternità nella considerazione che le donne hanno di sé, quanto prevalgano sul loro impegno civile, sul loro interesse per la politica, la cultura, la professionalità, non ha mai smesso di creare imbarazzo anche nelle pratiche del femminismo», scrive.

«Da attento e impietoso osservatore del comportamento femminile, Weininger ci mette di fronte a forme di dipendenza che tutte conosciamo e che abbiamo a fatica portato a consapevolezza». Senza questa presa di coscienza il mondo non si può cambiare: è la lezione appresa dal femminismo degli anni Settanta, che Melandri rimette in gioco nel suo dialogare con questo campione di misoginia, purtroppo ancora attuale.


Dialogo tra una femminista e un misogino (Bollati Boringhieri 2025, pp. 96, euro 12) è un libro di Lea Melandri

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