La sottile linea rossa: è quella che non flette verso il basso nelle rappresentazioni grafiche della serie storica degli omicidi, da anni in calo in Italia. È la linea che segnala il dato stabile dei femminicidi. La scia di sangue delle ragazze e delle donne morte per mano di partner, ex partner, familiari e amici, che provoca orrore, e fa paura.

La paura è un’emozione chiave per comprendere il fenomeno della violenza contro le donne. Perché, innanzitutto, le storie delle donne che subiscono violenza sono intrise di paura: quella per la propria vita e la vita dei propri figli, quella che persiste a lungo, anche quando cessano gli abusi. E poi la paura di non essere credute, e quella di perdere i figli nella separazione. Senza contare la paura che provano i figli stessi, costretti ad assistere, direttamente o indirettamente, a percosse, umiliazioni, molestie rivolte alla loro madre. La paura non afferra solo chi la violenza la subisce.

Il timore di subirla agisce, in realtà, sull’intera popolazione femminile, disciplinando i comportamenti fin dall’età dello sviluppo, portando a incorporare il senso del pericolo. A incorporarlo nelle posture, nelle percezioni, negli accorgimenti quotidiani.

Alle radici della violenza

E poi c’è la paura degli uomini. La paura che gli uomini non solo incutono, ma anche provano, di fronte a un mondo messo sottosopra dal femminismo, in cui il dominio maschile ha perso il consenso di cui ha goduto per secoli, anche presso le donne. «Il patriarcato è finito, non ha più il credito femminile ed è finito», scriveva Libreria delle donne di Milano già nel 1996, dopo la Conferenza mondiale delle donne di Pechino.

Naturalmente, la fine del patriarcato come sistema di potere indiscusso non significa la fine delle strutture di potere che l’hanno sostenuto. Queste strutture continuano ad agire nel mondo sociale e in quello politico, nella divisione del lavoro e nell’organizzazione dei ruoli familiari, riflettendosi nella cultura, nel linguaggio, in modi di pensare che finiscono per rafforzarle e sostenerle.

Il femminismo, però, ha rivoluzionato le menti. Ancora negli ultimi anni, scrive Verónica Gago, ricercatrice e attivista di spicco del movimento Ni Una Menos, «il movimento femminista ha fatto tremare la terra nel mondo intero». Comportamenti che per secoli sono stati considerati “naturali” in quanto depositati nella tradizione, rafforzati dai valori dominanti e, in certi casi, previsti dalle leggi sono venuti progressivamente allo scoperto come violazioni dell’integrità fisica e psicologica dei soggetti che li subiscono, e come manifestazione di una struttura di potere.

Le donne, da parte loro, si sono appropriate, in misura crescente, del proprio destino. Senza dipendere dagli uomini. Talvolta contro di loro. E tanti uomini appaiono terrorizzati dall’autonomia femminile.

Giulia Cecchettin si sarebbe laureata in ingegneria biomedica, se Filippo Turetta non l’avesse brutalmente ammazzata. E il suo non è purtroppo che l’ultimo caso di donne uccise nel tentativo di conquistare la propria indipendenza, o di riprendersi la vita allontanandosi da un uomo controllante e abusante.

L’ostilità verso le donne, sostiene Martha Nussbaum, ha radici nella paura. Una paura che può assumere forme diverse. Una delle narrazioni più pervicaci che alimentano la misoginia è, secondo la filosofa americana, «la storia dell’aiutante che non fa il suo dovere, secondo la quale ciò che gli uomini vogliono soprattutto dalle donne è un servizio fedele e una comprensione altruistica». Ora che le donne non sono più disposte a servire, ora che vogliono una carriera tutta loro, viene meno un «contratto naturale primordiale», cosicché gli uomini sono «più infelici», e non c’è da stupirsi che le donne paghino le conseguenze della loro «diserzione».

Un carattere profondo

Ma da dove nasce questa paura, questa incapacità maschile di far fronte al cambiamento? Cosa c’è al fondo del fenomeno in apparenza incomprensibile per cui gli uomini si accaniscono contro corpi “amati”?

Lea Melandri è forse, tra le voci del femminismo italiano, quella che ha ragionato più ampiamente sul nesso tra amore e violenza, e ha spinto lo sguardo più in profondità nelle pieghe delle dinamiche del dominio maschile. Per lei, la paura degli uomini ha radice nella negazione dell’umana dipendenza, della fragilità, della relazionalità, che è insita nei modelli di maschilità tradizionali.

«Per celebrare la sua autonomia, la sua libertà nella sfera pubblica l’uomo ha avuto bisogno di cancellare i suoi vincoli biologici, la nascita dal corpo femminile e tutto ciò che quel corpo continua a rappresentare per lui: la fragilità, la mortalità, la dipendenza dei primi anni di vita», scrive Melandri nel suo Amore e violenza. Sulla donna «l’uomo ha proiettato la sua debolezza, la sua caduta, la sua colpa, o semplicemente il retaggio della sua radice animale, e quindi dei suoi limiti di vivente». Per questo l’ha svilita, costretta a vivere di vita riflessa, a incarnare le sue paure e i suoi desideri. Ma – e qui è il punto – «insieme a lei ha dovuto in qualche modo svilire il suo corpo e tutte le passioni che lo attraversano. Ciò significa che attraverso l’immagine che l’uomo si è fatto dell’altro sesso passa un conflitto tutto interno al maschile, tra inermità e potere, dipendenza e cancellazione di ogni legame, corporeità e pensiero, sentimenti e ragione».

La scoperta maschile della propria dipendenza, causata per esempio da una separazione, da un “abbandono”, diventa per molti uomini fonte di insicurezza, di frustrazione, di un senso di impotenza che provoca paura e genera violenza.

Non è il solo tipo di violenza che vediamo agìta, c’è anche la violenza esercitata come una prerogativa maschile, come un diritto a comandare, correggere, punire. Ma persino quando assume il volto più tradizionale, più legato a modelli patriarcali del passato, sappiamo che la coercizione è un altro volto dell’impotenza, dell’incapacità maschile di relazionarsi con il femminile, e con una parte di sé. La paura delle donne non è altro dal dominio maschile, ne è un carattere profondo.

Accogliere la libertà

E allora siamo condannati a vivere nella paura? La paura delle donne di subire violenza, la paura degli uomini della libertà femminile?

In un tempo, in particolare, in cui sempre più spesso i protagonisti di violenze efferate sono molto giovani, viene giustamente in primo piano il problema educativo. Educare all’affettività, alla sessualità consapevole, al rispetto dell’altra, a relazioni non violente. Ma perché questi sforzi non siano vani è essenziale che non si limitino a trasmettere a bambini, ragazzi o giovani uomini modelli di comportamento corretto. Devono scavare nelle radici, scardinare le gabbie dei modelli di genere in cui gli uomini hanno rinchiuso le donne ma anche sé stessi.

Il cambiamento passa attraverso il pieno accoglimento della libertà delle donne, tanto nella sfera privata quanto in quella pubblica. Ma la libertà delle donne può e deve trasformarsi in una prospettiva di libertà anche per gli uomini: non un pericolo, ma una risorsa per una diversa esperienza di sé.

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