È uscito un libretto di Roberto Calasso. S’intitola Ciò che si trova solo in Baudelaire. Un titolo formulato nell’eterno presente del classico: il classico come ciò che, secondo la canonica formula di Calvino, «non ha mai finito di dire quel che ha da dire».

Il poeta francese Charles Baudelaire è sempre contemporaneo: siamo d’accordo. Ma un attrito c’è, in quel titolo, e non è il tempo presente, casomai per quel «solo». Cosa si trova solo in Baudelaire? Se alzo lo sguardo Baudelaire lo trovo dappertutto.

Sarà perché il poeta, come scrive Calasso, «sta al crocevia della grande città, che era il crocevia di Parigi, che era il crocevia dell’Europa, che era il crocevia dell’Ottocento, che era il crocevia di oggi».

Sarà perché Baudelaire è un evento strano, fondativo più di qualsiasi altro scrittore ottocentesco: un moderno prima di ogni moderno, radicato così a fondo nelle tendenze dell’oggi che è impossibile capire se è il nostro tempo a essere così spudoratamente baudelairiano, o lui a essere stato troppo profetico.

Ciò che due secoli fa si trovava solo in Baudelaire, oggi è ovunque: la sua postura è un’epidemia sociale, i suoi temi sono i fondamenti sommersi del mainstream. I suoi dispositivi di sopravvivenza nel mondo ne hanno creato un altro, magari altrettanto infernale. Forse è destino che ciò che è stato avanguardia, duecento anni dopo si trasformi in condanna.

Tra tutti gli anniversari celebrativi di questo 2021 ormai al termine - Dante e Dostoevskij su tutti - questo di Baudelaire è forse il più attuale, quello che dà più direttamente sull’oggi.

Cosa ha di contemporaneo? Innanzitutto la tipologia di intelligenza: «Un’intelligenza di una specie nuova, fondata sui nervi». I nervi sono il nuovo sensorium, l’antenna del ragionamento.

È tutto baudelairiano il primato dell’emotività sulla razionalità, del sentire come più alta forma del capire.

È baudelairiano il diritto inalienabile dell’io sento. È baudelairiano il diritto alla contraddizione continua: Baudelaire non crede nella virtù della coerenza, e a chi lo accusa di pronunciare, a fasi alterne, affermazioni inconciliabili tra loro, rivendica sempre il legittimo diritto a contraddirsi.

È baudelairiana la posa del dandy (Oscar Wilde sarebbe nato solo trent’anni dopo): essere sempre in posa, agire sempre come se si fosse in pubblico. Scrive poesie e saggi allo stesso modo di come scrive le sue lettere private; si muove per le strade di Parigi come fosse su un palcoscenico o su un set cinematografico: vive come se fosse sempre visibile a tutti, in una diretta incessante.

Proprio su questo giornale Walter Siti parlava di volti sempre più «apparecchiati per il pubblico», strutturati per l’esterno perfino in una fila alle poste. È la teatralità che sfonda ogni parete della vita, e rende il mondo un immenso palcoscenico di osservati e osservatori, dove ciascuno è attore e pubblico insieme. Un panopticon dove la naturalezza non deve esistere, se non recitata.

Autofiction

È baudelairiano il narcisismo elevato a poetica, a posizione filosofica: il vedersi come strada privilegiata del vedere. È baudelairiana la religione dell’io, l’autoanalisi maniacale, l’occhio concentrato davanti al suo riflesso. È baudelairiana l’autofiction, l’essere sempre al centro della propria inquadratura: il selfie ossessivo, il telefono con la telecamera interna sempre accesa.

Qualsiasi cosa faccia, che stia scrivendo o vivendo, per Baudelaire non c’è distinzione: al centro c’è sempre l’io, un io modernissimo e nevrotico che si commenta, si giudica, si magnifica e soprattutto si fustiga, si mortifica, si tortura, si condanna. L’io come un luogo di agghiacciante solitudine, dove nessuno può entrare se non per ferire.

Quando, usando per tramite una frase di Poe, progetta il proprio capolavoro, lo fa con questa formula: «Se qualche ambizioso accarezza l’idea di rivoluzionare l’universo del pensiero, delle opinioni e dei sentimenti umani non deve far altro che pubblicare un librettino».

L’opera si chiamerà Il mio cuore messo a nudo, e pubblicata oggi rischierebbe di sembrare la bacheca Facebook di un individuo tanto geniale quanto ozioso. È un libro che si propone di esplorare il proprio sentire nella sincerità più assoluta, un luogo dove riversare opinioni e pensieri senza più filtri. Un libro dove «ammasserò tutte le mie collere». Sembra la definizione programmatica di un social network. «Il culto delle immagini, la mia grande, la mia unica, la mia primitiva passione», scrive.

Sesso e identità

È baudelairiana la sclerotizzazione dell’erotismo, la visione del sesso come di un gioco di spettacolo e di marketing, dove l’esperienza dell’amplesso in sé è, in fondo, una questione secondaria. Nel 1852 intrattiene una relazione epistolare con Apollonie Sabatier: è quello che oggi chiameremmo un vero e proprio sexting, una corrispondenza ad altissima temperatura erotica, che si risolve però in un quasi nulla pieno di panico quando Apollonie chiede a Baudelaire di passare dalle (molte, magnifiche) parole ai fatti. È ipercontemporanea la descrizione stessa che fa di Apollonie, dipingendola come una moderna influencer: «Ostentava la salute, l’allegria e la spregiudicatezza come una professione».

È baudelairiano il riconoscere, nel rapporto uomo-donna, il luogo di una tossicità crescente ed esponenziale, di una maschilità avvelenata e violenta. Quando, in cerca di guadagni facili, prova a scrivere per il teatro – il Netflix dell’epoca – butta giù un soggetto imperniato su un femminicidio: un uomo uccide sua moglie «per gelosia»: siamo qui, fin troppo qui, nei nostri tragici e cruenti dintorni.

Peraltro l’episodio è ricavato da un fatto di cronaca nera realmente avvenuto a Parigi qualche mese prima: baudelairiano è anche l’uso strumentale della non-fiction, il gettare il vero nel falso per ottenere una verità al quadrato, osservata da più lati; gettare i propri nobili strumenti letterari nel gorgo della cronaca. È baudelairiano il tema della fluidità di genere, ed è baudelairiano il queer: destava scandalo perché indossava guanti rosa, vestiti sgargianti e appariscenti, colori considerati inappropriati in un uomo. Incarnava, nella Parigi rigida e contratta di Napoleone III, una nozione del maschile nel contempo più «abitabile» (per usare un’espressione cara ad Alessandro Giammei) e, nel contempo, più spettacolarizzata, disallineata, non polare.

La madre-amante

Baudelairiano è il rapporto di amore e odio con la propria madre: Caroline, destinataria della maggior parte delle sue lettere, rimarrà in fondo la donna della sua vita, in un nodo gordiano vischioso e freudiano che non si scioglierà mai. Le dava appuntamento per lettera, furtivamente, nei corridoi del Louvre, come fosse un’amante. Baudelairiano è il rifiuto della maturità, la posizione dell’eterno figlio: un ragazzo che non ha mai cessato le sue rivendicazioni contro gli Adulti, impegnato in un’incessante lotta generazionale contro il patrigno, il generale Aupick. La sua colpa principale: avergli fatto congelare il patrimonio. A suo avviso, il figliastro spendeva troppo e male. Un boomer armato a guardia del patrimonio.

La fine del mondo

In una ipercontemporanea sovrapposizione tra piano privato e pubblico, Baudelaire parteciperà alla rivoluzione del 1848, e dalle barricate lo si sentirà gridare ai compagni: «Andiamo a fucilare il generale Aupick!». Un’intera rivoluzione per uccidere il padre.

È baudelairiano il sentimento costante della fine del mondo, e la bizzarra, contraddittoria sensazione che neanche nell’estrema emergenza qualcosa possa mai cambiare. È fulminante la sua capacità di definire quella sensazione, tutta contemporanea e generazionale, che mescola panico e impotenza, ansia e frustrazione: «Il mondo sta per finire. La sola ragione per cui potrebbe durare è il fatto che esiste».

È baudelairiano l’eterno senso di colpa, un rimorso profondo e senza nome da cui non si riesce a uscire, ereditato da chissà dove e da chissà quando. Non è un caso che una delle sue poesie più belle s’intitoli Il punitore di se stesso. Soprattutto è baudelairiano l’inferno della società di mercato, la sensazione di vivere in un mondo inabitabile, che somiglia sempre di più a una struttura di marketing, un padiglione dove tutto è in vendita, dove persino il proprio corpo e la propria vita sono stati trasformati in capitale umano, e tutti sono ridotti a essere compratori e merce insieme, incastrati in una giostra performativa di autopromozione e di vendita. Un mondo dove il massimo grado di libertà esercitabile è l’opzione d’acquisto.

È un mondo che Calasso definisce «il bordello-museo». Il che significa non solo che prostituzione e libero commercio sono due facce della stessa medaglia, ma che l’esperienza stessa – persino la più preziosa, come quella amorosa, artistica o religiosa – è diventata una merce. Il sé, come il Tempio dove Gesù irrompe nel Vangelo, è diventato «un luogo di mercato».

«Io chiedo a ogni uomo pensante di mostrarmi ciò che sussiste della vita»: è la frase che Calasso mette in esergo del libro, e che segnala la cosa che forse davvero si trova solo in Baudelaire: una radicalità spregiudicata oltre ogni limite, la necessità di portare ogni atto intellettuale fino alle sue estreme conseguenze esistenziali. Anche a costo della propria stessa vita.

Poco prima di morire, il 23 gennaio 1862, scrive così: «Ho coltivato la mia isteria con gioia e terrore. Oggi ho subìto un singolare avviso: ho sentito passare su di me il battito d’ali dell’imbecillità».

 

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