È l’estate del 2008, ho 16 anni e ho appena scoperto Sex & the City. Nella vita vera, in compenso, non ho ancora scoperto né il sesso né la città. Vivo in provincia e ho avuto un solo fidanzatino e per ognuno dei cinque mesi in cui siamo stati insieme (vale a dire: abbiamo limonato su dei muretti) mi sono chiesta cosa ci stessi a fare: era tanto bello quanto cafone.

Il ragazzo che mi piace, intanto, è appena partito per un anno in America. Ci siamo visti una sola volta prima della sua partenza, ma in quell’occasione ho somatizzato l’ansia con un herpes labiale di dimensioni catastrofiche, pertanto ci siamo detti addio con una bella pacca sulla spalla, promettendoci di riprovarci 12 mesi dopo.

Nello stesso periodo mi viene diagnosticata una scoliosi laterale (cioè senza gobba, ma con la spina dorsale a forma di S) che a quanto pare va attaccata immediatamente con uno strumento di tortura medievale dal nome piuttosto fuorviante: il busto Milwaukee. Ho patteggiato per non indossarlo a scuola – niente è più precario della reputazione di un’adolescente – ma questo significa che devo entrare nel mio polmone d’acciaio tutte le altre ore del giorno e della notte, dormendo semi-seduta come l’Elephant Man e studiando inginocchiata davanti a un tavolino come una Geisha con un bastone nel culo. Fa caldo, il busto mi sega le cosce, se voglio andare in bagno devo sperare che ci sia qualcuno a tiro che mi possa togliere l’imbragatura. Insomma, potrebbe andare meglio.

A salvarmi l’umore, in un’epoca in cui per vedere un film in streaming è previsto che si aspetti 72 minuti di blocco Megavideo tra il primo e il secondo tempo (un’abnegazione che cerco sempre di evocare quando adesso mi trovo isterica davanti alle piccole crisi della contemporaneità), arrivano i cofanetti di Sex and the City.

Sono un regalo di mio padre, che si dà il caso sia l’unico uomo eterosessuale in Italia fan della serie (è anche lo stesso uomo che a quattordici anni mi ha regalato Il collo mi fa impazzire di Nora Ephron, gettando le basi per questo delirio egoriferito di cui ora siete spettatori ogni domenica).

Una serie per la vita

Le mie sere dell’estate del 2008 passano così: mi chiudo nello studio di casa dove abbiamo un televisore grande come un foglio A4, regolo una sedia d’ufficio inclinandola un po’ in avanti in modo da riuscire a stare seduta con la mia impalcatura senza essere costretta a fissare il soffitto e disco dopo disco entro nelle vite decisamente più scintillanti di Carrie, Samantha, Miranda e Charlotte, che parlano di cose che non capisco ma cionondimeno mi piacciono.

Il busto Milwaukee giace ora nel garage dei miei, mentre i cofanetti di Sex & the City mi hanno seguito nel tempo. Ci sono state plurime visioni delle sei stagioni negli anni e l’ho amato ogni singola volta. Ho litigato con uomini e donne che lo liquidavano come una cazzata per femmine, ho suggerito a tutti che ci provassero loro a scrivere una cazzata così bene. Ho chiesto a ogni nuova amica a quale personaggio si sentissero più somiglianti, ho catalogato i fidanzati di tutte come Big, Aidan e, Dio ce ne scampi, Berger.

Ho desiderato scarpe, vestiti e appartamenti, sono passata davanti alla casa di Carrie nel West Village di New York. Tutto questo per dire che ero contenta così. Non avevo bisogno dei film e non avevo bisogno tantomeno di And Just Like That, la serie sequel di cui si è appena conclusa la seconda stagione, che fa sembrare i due orridi film precedenti Quarto potere e Viale del tramonto.

Il cringe

Non c’è niente da fare, And Just Like That è brutta brutta in modo assurdo. È brutta di quella bruttezza che ti fa vergognare per le persone coinvolte, che ti fa cercare segni di disperazione negli occhi di Sarah Jessica Parker (ha sbattutto le palpebre due volte di fila, starà chiedendo aiuto?). È brutta che ti fa venire dei piccoli brividi lungo la schiena e capisci che il concetto di “cringe” è stato inventato per definire cose come questa. È brutta che ogni tanto vorresti gridare “basta” alla tv, eppure non riesci a smettere di guardarla, perché è brutta di quella bruttezza che ti incanta.

È così brutta che non so neanche da dove cominciare a spiegare perché è brutta: sono i goffi tentativi di rendere le tardone moderne con nuovi orientamenti sessuali e fluente uso di pronomi non-binari? Sono i vestiti circensi con cui Carrie passeggia il mercoledì mattina? Sono i discorsi sull’editoria in crisi che la spinge a elemosinare strilli per la sua copertina come un’esordiente qualunque, giusto un paio di puntate prima di comprare una casa con quattro camere da letto a Gramercy Park?

O è forse la suggestione malefica che le donne adulte (queste donne in particolare: belle, ricche, di successo) non possano mai liberarsi dalle insicurezze della gioventù, a sessant’anni ancora angustiate davanti allo specchio per una cintura che segna la pancia o alle prese con sostituzioni di maternità come delle stagiste ventenni?

Niente ha senso in And Just Like That, ogni episodio è un elogio dell’inverosimiglianza, un tripudio di falsità, tenuto insieme da una scrittura talmente moscia che forse quella cosa dell’intelligenza artificiale contro cui sceneggiatori e attori stanno manifestando da settimane in fin dei conti non è un’idea malvagia. Non mi sorprenderebbe neanche scoprire che qualcuno ha digitato “reboot Sex and the City” in un computer semi-sofisticato e questo sia in effetti il prodotto storpio e senz’anima di una macchina che ignora l’esistenza della serie originale.

Impronta sbiadita

Per pulirmi il palato e verificare di non essermi immaginata tutto in un momento difficile della mia vita (busto, adolescenza, jeans a vita bassa), mentre andava in onda And Just Like That e ogni settimana guardavo un nuovo episodio con lo stesso amor proprio di un maiale che si rotola nella merda, ho rivisto per l’ennesima volta le prime sei stagioni e con sollievo ho potuto constatare che sono invecchiate benissimo, almeno quanto SJP. Certo, non sono inclusive. Certo, non passerebbero il test di Bechdel. Certo, sono permeate da dosi massicce di inverosimiglianza anche loro, a partire da alcune evidenti incongruenze tra lavoro e stile di vita di Carrie (indovinate quante Manolo ho comprato io con la mia rubrica settimanale: esatto, nessuna).

Ma le incongruenze erano di contesto, un fondale colorato di paillettes e benessere anni novanta che faceva solo da contorno alle storie di quattro personaggi che erano delle persone. Ora il contesto è passato in primo piano: in And Just Like That tutto ruota intorno a cene stellate, catering, anniversari, le case, le cose. Delle protagoniste che conoscevamo non è rimasta traccia, se non un’impronta sbiadita a forma di scarpa col tacco, e di quelle nuove è impossibile interessarsi.

Tre di loro non sostituiranno mai la grande assente, Kim Cattrall nei panni di Samantha Jones, che si è guardata bene da prendere parte a questa imbarazzante rimpatriata, salvo comparire per un totale di 75 secondi nell’ultima puntata della seconda stagione (in una macchina, al telefono, probabilmente con le ciabatte ai piedi fuori campo). Difficile sbagliare 75 secondi del personaggio più amato della serie, direte voi, e invece per coerenza hanno fatto schifo anche quelli.

Intanto è stata annunciata una terza stagione di And Just Like That, che ovviamente guarderò perché non ho nessun autocontrollo, ma nell’attesa farò finta che non sia mai esistito e continuerò a vivere di nostalgia e ricordi di quello che è stato. Avremo sempre Milwaukee.


 

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