Medioevo, cioè età di mezzo. Ma intesa in due modi diversi: un’epoca oscura tra lo splendore dell’antichità classica e la rinascita dell’umanesimo oppure lunghi secoli di transizione – con luci e ombre come tutti gli altri – in cui matura quella insostituibile mediazione che ha trasmesso l’eredità del mondo antico a quello moderno?

Il dibattito storiografico e le ricerche da decenni si orientano sempre più verso la seconda risposta, ma soprattutto ricostruiscono i tratti variegati di un millennio fondamentale sia nell’oriente bizantino che nell’occidente europeo latinofono.

I pregiudizi

Tutto questo non intacca però gli stereotipi negativi. Bastino due esempi presi dallo Zingarelli 2024, che per il termine «Medioevo» registra, dopo la definizione neutra dell’età storica, il senso figurato e spregiativo di «periodo considerato simbolo di arretratezza e oscurantismo».
Più o meno lo stesso si verifica per l’aggettivo «bizantino» che, se può significare per estensione «eccessivamente raffinato e ricco», è soprattutto sinonimo di «sottile, cavilloso e pedante».

All’origine di questa svalutazione sono gli umanisti, polemici nei confronti della lunga età precedente, e che «attinsero alla grande eredità medievale con incredibilmente poca riconoscenza». Così, con lieve humour britannico, riassumono due docenti di Oxford, il latinista Leighton D. Reynolds e il grecista Nigel G. Wilson, in Copisti e filologi, l’eccellente sintesi sulla trasmissione dei testi antichi pubblicata in Italia mezzo secolo fa. Anche se i due studiosi ovviamente riconoscono il «modo nuovo e vitale» con cui l’umanesimo affrontò e studiò la cultura classica.

Nell’immaginazione negativa o positiva del medioevo considerato un’età cristiana, in modo peraltro piuttosto sommario, sono entrati in gioco anche la polemica antireligiosa dell’illuminismo e quindi l’idealizzazione romantica (e non di rado reazionaria). Il dibattito storiografico si è dunque necessariamente esteso allo studio del rapporto tra cristianesimo antico e cultura greca.

L’incubo di Girolamo

Questa relazione ineliminabile è a sua volta in stretto rapporto, fin dalle traduzioni greche della Bibbia, con la fioritura del giudaismo ellenistico, troppo spesso trascurato, e viene poi declinata con sfumature anche molto diverse tra loro dagli autori cristiani. Arrivando al dibattito mai sopito sull’ellenizzazione del cristianesimo nel quale si iscrive la lezione tenuta nel 2006 da papa Ratzinger all’università di Ratisbona.

Emblematico del rapporto tra fede cristiana e cultura classica è l’incubo di Girolamo, destinato a una fortuna letteraria duratura. Il grande filologo – vir trilinguis, «uomo dalle tre lingue» (latino, greco, ebraico) e santo prediletto dagli umanisti – traduce, a cavallo tra IV e V secolo, buona parte dei libri biblici dagli originali ebraici in latino. È la celeberrima Vulgata, che Paul Claudel considerava ispirata, se non in senso teologico certo in quello letterario: un capolavoro che, come Bibbia dell’occidente, si afferma nel medioevo e regna incontrastato sino alla metà del Novecento.

Geniale asceta dal carattere iroso e tagliente, Girolamo contribuisce con le sue opere alla costruzione del cristianesimo occidentale. Ne consegue una fortuna iconografica rigogliosa dove il santo filologo spicca tra i dottori della chiesa: spesso un leone è accucciato mansueto ai piedi dell’unico autore antico a essere raffigurato anacronisticamente come cardinale.
Collaboratore di papa Damaso, non riesce infatti a farsi eleggere suo successore e, deluso, ripara a Betlemme. Qui porta a termine le versioni bibliche e cura un epistolario di enorme successo che a buon diritto può essere paragonato a quello di Cicerone.

Appunto l’accusa di essere «ciceroniano, non cristiano» è al centro dell’incubo di Girolamo, raccontato vivacemente in una lettera – scritta in un latino scintillante e fitto di riferimenti classici – che lo ambienta a metà quaresima nel deserto di Calcide, in Siria.

Nella sua cella dove alterna la lettura di Cicerone e di Plauto a quella dei disadorni profeti biblici l’eremita, stremato da una febbre quasi mortale, viene «trascinato in spirito» davanti al tribunale divino: Ciceronianus es, non Christianus. Ogni difesa risulta inutile e il colpevole viene flagellato senza pietà finché non implora il perdono. Alla fine, sogno o realtà, Girolamo torna in sé, ma pieno di lividi.

Confronto continuo

Nel medioevo l’incubo geronimiano diventa ricorrente. Nel X secolo in un sogno a essere accusato per avere dato troppa importanza alla filosofia è Bruno, arcivescovo di Colonia e fratello dell’imperatore Ottone I, ma in sua difesa interviene addirittura san Paolo.
Nel potente monastero riformatore di Cluny l’abate Oddone sogna invece di trovare in un bellissimo vaso dei serpenti, peraltro inoffensivi, e capisce che il magnifico recipiente è Virgilio mentre i rettili sono la dottrina dei poeti pagani. Più tormentoso è l’incubo del suo successore Ugo, insidiato anch’egli da serpenti, stavolta identificati con il codice di Virgilio sul quale si era addormentato.

Gli incubi svaniscono con Petrarca, che al vescovo Giacomo Colonna scrive: «Il mio Agostino non si dovette mai presentare in sogno davanti al tribunale del giudice eterno, come invece il tuo Girolamo». In realtà l’asceta filologo non era stato così tormentato dal presunto dissidio tra «cultura umanistica e desiderio di Dio» (L’amour des lettres et le désir de Dieu): così il benedettino Jean Leclercq intitola nel 1957 il celebre studio sulla letteratura monastica medievale che mostra il legame tra la fede cristiana e il patrimonio culturale antico, già forte nei primi secoli.

I giganti

Un ruolo importante nell’assimilazione e nell’uso dell’eredità classica, greca e romana, viene svolto dal monachesimo più colto. In oriente grazie a figure come i padri della Cappadocia – Basilio, suo fratello Gregorio di Nissa e Gregorio di Nazianzo – sulla scia della cultura cristiana alessandrina, in occidente da una costellazione di figure che muovono da Ambrogio, il potente vescovo di Milano, da Girolamo e da Agostino, il più famoso padre della chiesa.

È sulle spalle soprattutto di questi giganti che si arrampicano dei nani, ma questi, grazie alla statura di chi li porta, possono dire di poter vedere più lontano di loro. La celeberrima metafora è del grammatico e filosofo Bernardo di Chartres, e rende bene il significato della cultura medievale. Non a caso questa consapevolezza si colloca agli inizi del XII secolo, sulla soglia della seconda rinascita medievale. La prima, quella carolingia, nel IX secolo prende il nome da Carlo Magno. E carolina si chiama anche la scrittura che – ripresa in età umanistica – è quella delle nostre tastiere.

Di queste due rinascite culturali che assicurano la sopravvivenza di parte della cultura antica protagonista importante è appunto il monachesimo. Già dal V e VI secolo con i monaci sciti Giovanni Cassiano e Dionigi il Piccolo, provenienti da un territorio bilingue nell’attuale Romania, e poi con Eugippio e Cassiodoro nei monasteri di Castellum Lucullanum presso Napoli e di Vivarium in Calabria. Poi si affermano quelli benedettini, primo fra tutti quello di Montecassino.

Si cercano e si trascrivono codici, che poi viaggiano con i monaci attraverso l’Europa.

Grazie soprattutto ai missionari irlandesi e angli, cristianizzati dal continente e che a loro volta fondano monasteri in Gallia, Germania, Italia, frutto di una cultura «insulare» originale che esprime figure di prima grandezza: come Beda e Alcuino, il consigliere di Carlo Magno.

Analizzando molti manoscritti Lidia Buono ha ripercorso questa lunga transizione culturale (Medioevo monastico, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo).

Dallo «specchio dei libri» (e con molte illustrazioni) si entra così nei monasteri e nelle scuole delle cattedrali. Dove si studiano le discipline del «trivio» (grammatica, retorica, dialettica) e del «quadrivio» (aritmetica, geometria, astronomia, musica), salvando in questo modo quanto era sopravvissuto dal disastroso naufragio della cultura antica.

Come il poemetto De reditu suo del poeta pagano Rutilio Namaziano: un testo polemico con i cristiani ma «sottratto all’oblio» dai monaci, che lo trascrissero in un codice ritrovato nel monastero di Bobbio.

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