A Londra si possono visitare decine di case una dopo l’altra senza trovarne una che sia sguarnita dei libri di cucina di Yotam Ottolenghi e Sami Tamimi. La coppia di chef, entrambi di Gerusalemme, uno israeliano e uno palestinese, a partire dai primi anni 2000 ha conquistato la scena culinaria della capitale inglese proponendo piatti mediterranei ben radicati nelle tradizioni delle terre di origine ma non privi di tratti sperimentali.

Il brand Ottolenghi è diventato un piccolo impero di ristoranti, deli, pubblicazioni e, più di recente, anche prodotti per supermercati di lusso.

Negli anni dell’ascesa il richiamo della coppia di chef andava oltre la qualità della loro cucina. Ottolenghi e Tamimi erano anche visti come “traditori della compattezza etnica”, per dirla con Alexander Langer nel trentesimo anniversario della sua scomparsa, cioè venivano ammirati per come avevano fatto fortuna insieme mettendo in secondo piano l’appartenenza a due popoli in conflitto.

Volenti o nolenti, la stampa ha fatto di loro un simbolo di coesistenza, coniando slogan agghiaccianti come “cuciniamo la pace”.

Ma per quanto rimangano partner dal punto di vista commerciale, il loro rapporto personale non è sopravvissuto all’ultima stagione di violenze. «Non parlo con Ottolenghi dal 7 ottobre 2023», confessa Tamimi durante un incontro al club privato “Quo Vadis” di Soho, in centro a Londra. «In una situazione come questa si va spontaneamente in cerca di supporto, e quando non arriva...», sospira sistemandosi il braccialetto con i colori della bandiera della Palestina.

Anche se l’intervista ha luogo, per caso, proprio nel giorno dell’offensiva a sorpresa di Israele contro l’Iran, fra le raffiche di notifiche che fanno brillare gli schermi dei telefonini, appare subito evidente che non sia un tema di cui voglia parlare.

Il giardino  

L’occasione dell’intervista è piuttosto l’imminente pubblicazione di Boustany, «il mio orto» o «giardino» in arabo, il secondo libro di ricette che Tamimi scrive senza Ottolenghi e dedica alla tradizione culinaria palestinese. 

«I miei nonni materni avevano una casa da sogno nella periferia a nord di Hebron, nel sud della Cisgiordania», racconta lo chef, spiegando il titolo del nuovo volume. «Ci andavamo spesso in vacanza o in occasione di raduni familiari. E c’era un orto pieno di piante rigogliose, alberi da frutta e verdure. Ricordo le corse in mezzo al verde, il raccolto trasformato subito in piatti tradizionali».

Tamimi racconta come la sua memoria funzioni tantissimo attraverso il cibo, gli odori, gli aromi. «Sono tutte sensazioni che mi sono rimaste addosso negli anni», dice. «Ma per il libro ho anche cercato di rinfrescare i ricordi parlando con fratelli, sorelle, parenti», spiega.

La casa nel villaggio di Wadi Al Tufah esiste ancora – oggi appartiene a dei cugini. Eppure Tamimi non vi ha fatto ritorno dopo l’infanzia, forse per paura di non ritrovare la stessa magia, di sfatare un mito. «Hebron è una delle zone più sfigurate dall’occupazione», dice. «In occasione del prossimo viaggio forse troverò il coraggio di tornare in visita». Su Google la località non compare nemmeno: i mappatori del motore di ricerca danno notoriamente più visibilità alle località israeliane.

Come nei suoi lavori precedenti, Tamimi vuole essere sia custode della tradizione che innovatore. Non manca la tahina, la salsa di sesamo alla base di tanta cucina medio-orientale. Prepararla è semplice: «Metti la salsa di tahini in una piccola ciotola, insieme all'acqua, al succo di limone, all'aglio e a ⅓ di cucchiaino di sale, poi mescola».

Non mancano il labneh, il celebre formaggio spalmabile, o il falafel, proposto in versione ghazawi (di Gaza). Gaza dove «usavano molte spezie, peperoncino, aneto, semi di aneto, poi pesce e frutti di mare», dice. Ma ci sono anche le frittelle al cardamomo con tahini, halva e carruba, il toast alla feta con bucce di cetriolo, le varietà sorprendenti di sottaceti, e altre evoluzioni ardite dei classici palestinesi.

Tamimi pensa che la paura di vedere il proprio retaggio culinario estinguersi a fronte del conflitto sia alla base una tendenza palestinese a mantenere le ricette immutate. Lui invece, pur mantenendosi saldamente ancorato alla tradizione, spiega di voler far emergere «il tratto intraprendente» del carattere dei connazionali.

Nei suoi piatti e nei suoi libri è evidente una ricerca autonoma di armonia, equilibri di gusto, perfino estetica. «Non voglio che quando si dice Palestina si pensi solo alla guerra», racconta. «L’obiettivo era comunicare il nostro legame con la terra, con le sue stagioni, ma fare comunque un libro leggero».

Tamimi è fuggito non ancora maggiorenne dalla Città Vecchia di Gerusalemme, dove è cresciuto. Il fatto di essere gay in un contesto sociale molto conservatore è stato uno dei fattori ad averlo spinto verso la società israeliana: prima che a Londra, infatti, approda a Tel Aviv, dove vive i suoi primi successi professionali. Nato con lo status «di mezzo» di residente permanente di Gerusalemme, non aveva limiti alla sua libertà di movimento nel paese.

Più avanti negli anni ha anche ricevuto la cittadinanza israeliana. Guai a ricordaglielo oggi: «Non sono israeliano», sbotta. «L’ho fatto solo per avere i documenti, la sicurezza di poter rientrare sempre a casa».

Influenze variegate

Il libro è arricchito da brevi pezzi narrativi in cui Tamimi racconta la realtà da cui nasce il suo modo di cucinare. Dalle donne sedute a terra che gli vendono lo za’atar alla Porta di Damasco, nella città vecchia di Gerusalemme, alla signora Lara Nassar-Mitri, armena di Betlemme, la cui ricetta antica ispira la «zuppa di yogurt armeno-gerosolimitana».

Ma per quanto abbia fatto parte del suo vissuto, Tamimi evita di menzionare Israele (il termine appare una sola volta alla fine del libro, citato in relazione a dei ristoranti in cui ha lavorato, nella biografia dell’autore). Di fianco c’è la sua foto, in cui indossa una maglietta “Free Palestine” con la mappa della Palestina storica.

Protagonista inaspettata è invece l’Italia, e in particolare l’Umbria, che Tamimi considera quasi una patria adottiva. Lo chef e il compagno inglese Jeremy hanno una casa lussuosa immersa nella campagna della pittoresca località di Limigiano di Bevagna, in provincia di Perugia. «Nel 2020 eravamo arrivati in macchina da Londra con l’intenzione di passarci una vacanza», racconta. «Poi, con l’arrivo della pandemia, abbiamo finito per passarci quasi un anno», spiega alludendo alle restrizioni dovuto al Covid.

«Quando ero in Umbria, cucinavo per rilassarmi, il concetto di Boustany è emerso proprio in quel periodo», si legge nell’introduzione del libro. «Non si trattava solo di creare ricette, ma di intrecciare storie, ricordi, emozioni racchiuse in ogni piatto». E sperimentare: di fatto, il vero boustany, dove ha cresciuto i suoi ingredienti a chilometro zero, è quello della casa italiana.

La situazione si prestava perché «La nostra dieta è composta quasi interamente da alimenti baladi, come li chiamiamo noi, cioè freschi e coltivati localmente», dice. In Umbria si è anche sbizzarrito alla ricerca di erbe selvatiche. «Jeremy aveva paura che lo avvelenassi», ride.

Boustany per ora sarà pubblicato in inglese, olandese, francese, polacco, tedesco, ma non in italiano. In italiano esiste invece Jerusalem, il bestseller scritto a quattro mani con Ottolenghi. «Oggi non potrei mai più scrivere un libro con un israeliano», dice Tamimi.

Il fatto che anche un personaggio come lui si dichiari in questi termini dà una misura della profondità del danno provocato da questo conflitto. Il cuoco sente il bisogno di prendere le distanze dal suo stesso passato. «Alla gente piace appiccicarti addosso dei ruoli», dice, «ma non siamo mai stati icone della pace».

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