Parla l’autrice dei romanzi Dove non mi hai portata: mia madre, un caso di cronaca del 2022 e Magnifico e tremendo stava l'amore del 2024, entrambi da Einaudi. Una conversazione inaspettata
- Questo articolo è tratto dal nostro mensile Finzioni, disponibile sulla app di Domani, sullo sfogliatore online e in edicola.
Mi imbatto in Maria Grazia Calandrone per caso quest’estate. Un’estate difficile, come sempre. Non è che legga molto, in genere. Mi piace molto stare al telefono, da anni. Mi contorco sulla spiaggia, guardo lo schermo con un mezzo occhio, passo il pollice sul vetro, risento un audio con una sedutina di meditazione di Tara Brach. Istigo cattiverie tra gli amici in chat. Divoro Cuccioloni. E divoro due Calandroni di colpo, i romanzi Dove non mi hai portata: mia madre, un caso di cronaca del 2022 e Magnifico e tremendo stava l’amore del 2024, entrambi da Einaudi.
Me li ha consigliati la mia spacciatrice di libri, la mia ex migliore amica, Raffaella. Due Calandroni in due-tre giorni, forse non è come ingollare due Cuccioloni in un’ora, ma di certo due Calippi di sicuro. Convinto – per ignoranza assolata o anche pura – di approcciare appunto una lettura che ritengo leggerina, “femminile” (essendo io razzista, machista, patriarca, nonostante sia pazzamente omosessuale), vengo trascinato dai due Calandroni sulla groppa in un gorgo meravigliosamente doloroso, esplosivo perché anche in un caleidoscopio di fatti reali – e in modo accurato – terribilmente puntuale.
I Calandroni mi hanno regalato con soli 33 euro di spesa un intero ciclo istantaneo di terapia profonda (molto oltre le costellazioni familiari e similia). Ho pianto per la morte di mia madre, per la prima volta, dopo due anni da che era successo. Devo arrendermi: sono di fronte a una scrittrice impagabile, letteralmente, specie in tempi di povertà che ti travolge di colpo, di solitudini che non ti riesci neanche a spiegare.
Un caffè a Roma
Quando capisco che era appena uscito un nuovo Calandrone, Dimmi che sei stata felice, sempre per Einaudi, provo a incontrarla (nel frattempo mi sono letto anche un paio di suoi libri di poesie, perché da lì inizia a operare). Le scrivo su Instagram. Risponde al volo. Sono anche io a Roma. Tricchetracche e ci vediamo dopo due giorni in un bizzarro caffè fuori dalla fermata di Piramide. Aveva la febbre. Non me la voglio cuccare perché sono in partenza. La scrittrice è gentile, trova un posto al semi-aperto. È già lì quando arrivo, anche se sono puntuale.
Non è quello che mi aspetto, non è la Calandrona che mi aspettavo. È altra cosa. Più strana, più complessa, probabilmente più pericolosa. Ma anche molto romana, che va benissimo (dirà dopo: «Roma mi piace perché è la città del grande sticazzi», che è vero). Inizio il discorso da un punto X. Lo sai che tu fai uno strano effetto al lettore? «Faccio molti strani effetti perché cambia continuamente quello che scrivo. Però sì».
Nel momento del tuo esordio hai scelto la poesia, che anni fa era proprio la cenerentola dell’editoria. «È il motivo per cui l’ho scelta, tra l’altro. Così non mi disturbava nessuno». E come campavi? «Facevo altri mestieri. De tutto: dalla vendita porta a porta, alla dama di compagnia… No, adesso no. Adesso no, ovviamente». La dama di compagnia di chi? «Di una signora anziana che aveva una voglia di sentire delle letture, della conversazione. Ed era un ottimo modo per fare insieme del bene e guadagnare qualche lira».
Sempre abitato a Roma? «Sì. Sempre abitato qui e per fortuna ho sempre avuto la casa di proprietà che mi ha lasciato la mia famiglia. Quindi, diciamo, quello che dovevo gestire erano proprio le spese. E io devo dire che mangio poche cose, cose semplici. Non mi interessa, il perché non lo so. Devo dire, me la sono cavata bene per anni».
Tirando a fare, diciamo, il meno possibile. «Diciamo che questa è la mia inclinazione naturale, ma non mi riesce. Non mi riesce perché sono una… alla fine sono una nevrotica e sono dominata da un superiore senso del dovere, devastante. Quindi devo fare delle cose difficili. La mia inclinazione viene contraddetta quotidianamente dall’educazione. L’educazione comunista». Chi era comunista? Tuo nonno? «No, no, mio papà. Era stato deputato della Costituzione. Era un uomo che ha dato la vita al partito. E però era critico nei confronti di Stalin, a differenza di una madre che invece era per la linea dura. E così mi ha aiutato».
Dentro le viscere
Chiedo a Calandrone la cosa più importante, almeno per me: cosa la rende così capace di infilare la mano dentro le viscere. È la vita che ha fatto? La sua origine di (si diceva allora) “trovatella” che chiaramente abbiamo conosciuto dai romanzi suoi. «È l’ascolto, credo. E la curiosità. Sono sinceramente curiosa delle storie della gente».
Quando hai scoperto la storia della tua vera madre? «A quattro anni». Già dal lavoro poetico, questa signora vagamente streghesca (ma in modo bianco, «no, non lo sono, ma se mi fai vedere la foto di qualcuno ti dico che persona è») ha sempre sorpreso nell’utilizzare interpolazioni con i fatti della realtà e della cronaca. Sono dei ganci, degli uncini storici che appaiono, dai quali risulta evidente tutto il lavoro di attenzione, di scavo, di studio che corre in parallelo alla penetrazione ombelicale dei sentimenti-base.
Hai un’abilità di sintesi nel descrivere i fatti storici che è abbastanza sorprendente, perché è molto facile sbracare nel raccontarli, lo sapete. «È vero. Bisognerebbe dirlo all’editore: ogni tanto mi diceva “Ma troppe pagine” per la storia. Però io penso che, per capire… per capire noi, non possiamo prescindere dal contesto». Rispetto a questo lavoro di scavo anche delle fonti, alle visite agli archivi e alla ricerca storiografica in assoluto, tu sei oltretutto velocissima. Lo dichiari sempre in calce, ai libri. Ci ho messo un’estate per scrivere questo. Per fare quest’ultimo romanzo, il primo con personaggi di finzione, ci hai messo un mese. «Siccome non mi va di fare niente, mi spiccio».
Quando è che diventi cacciatrice di fatti? «Allora: quest’ultimo libro è un collage di varie storie, e questo si capisce. Ho messo insieme molte cose che ho sentito, a cominciare dalle vicende della mia… della signora del piano di sopra. E si è composto ‘sto mosaico».
Il punto
Ti posso confessare una cosa senza che ti incazzi? «Dimmi. Non c’ho l’energia, guarda».
Stavolta io non ho beccato il punto del romanzo. Però magari… «Non c’è».
Ah, meno male. «Non c’è. Nel senso che il punto è la storia d’amore che esplode. Perché se dobbiamo cercare un punto in questo libro, è come si sviluppa il trauma, il dolore, dal nulla. Come delle inezie possono innescare una catena, no? C’era Vittorio Sereni che diceva le cose che nascono da un impercepito nonnulla. Ecco: quell’impercepito nonnulla che può avere delle conseguenze. Quindi il punto è fare una specie di affresco, anche approfittando per raccontare il buco storico che mancava nei vari romanzi tra la morte di mia madre e il matrimonio di Luciana Cristallo (protagonista del romanzo precedente, ndr). Quindi negli anni Settanta-Ottanta, che ci tenevo molto a rappresentare, per ricollegare tutti i punti. Per raccontare la storia di questo paese e come siamo arrivati a questo punto».
Che punto è? «È un punto di solitudine». Hai detto la cosa più importante, oggi, in assoluto. È il buco enorme che sta sotto tutto, ora. E tu quindi cosa vuoi fare? Vuoi compiere una sorta di magia bianca che è quella di risollevare un po’ il manto delle cose, per cercare di vedere se c’è vita vera ancora da qualche parte. Penso a Dove non mi hai portata: alla fine della lettura proprio non se ne poteva più, il crescendo è talmente devastante... La forza che tu ci metti è proprio il corpo, lì dentro, per vedere ancora se c’è dell’umano dentro quei corpi come se tu avessi un bacchetto da rabdomante.
«Non pretendo di risvegliarlo, però per esempio la cosa più bella che mi sembra di fare è quando vado nelle scuole e vedo che i ragazzi piano piano si rianimano. Spesso mi chiamano per parlare di violenza sulle donne, questi temi. Magari in questo libro mi chiameranno per parlare d’amore, perché alla fine è un libro d’amore, questo. Se proprio dobbiamo cercare un punto, nelle scuole mi sembra che sentire le domande dei ragazzi, sentire le loro provocazioni, rispondere quando posso, abbia un senso».
Ti sei divertita da giovane? «Un cazzo, no».
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