«Non devi inchinarti davanti a nessuno che non sia dio», è il comandamento che il padre di Jafar Panahi lascia al figlio. Lui trova dio solo nelle immagini facendo cinema, e qualche giorno fa a New York, il regista iraniano, dopo aver raccontato questa storia, si è inchinato a quello che ha definito «il dio delle immagini»: Martin Scorsese. Non è un caso che Akira Kurosawa lo volle nei panni di Vincent Van Gogh nel suo Sogni.

Ora, finalmente, Scorsese racconta tutto quello che c’è dietro le sue immagini a cominciare dalla vita, la sua e quella dei suoi amici, della sua famiglia, delle sue mogli e delle sue figlie, in una lunga conversazione con la regista Rebecca Miller, Mr. Scorsese (su Apple TV), dove, sezionato in cinque parti, dice della sua rabbia, della sua dipendenza, ma soprattutto del suo cinema.

E Panahi ha ancora una volta ragione a buttarla in religione: il documentario comincia e finisce con i Rolling Stones, ma cosa fondamentale è l’inizio con Sympathy for the Devil, che tradotto dal greco, syn páthos è sentire insieme, quindi sentire insieme al diavolo, non esserlo né tantomeno volergli somigliare, ed è quello che ha fatto Scorsese raccontando la violenza e dribblando a lungo il lieto fine che tanto piace a Hollywood.

L’altra conferma arriva da una delle voci più importanti degli Stati Uniti, lo scrittore Gore Vidal, uno che aveva capito e raccontato la storia dell’America e non a caso dice a Martin che in lui vede «un gangster e un prete», supportato da Isabella Rossellini che lo appella come «santo-peccatore», specificandolo anche in italiano.

Il  nostro mondo 

Per noi il cinema di Scorsese è tutto il mondo dal quale veniamo: Il Padrino di Coppola sono le radici (il film più amato), Mean Streets (il film migliore, che in italiano aveva come sottotitolo: Domenica in chiesa, lunedì all’inferno) è la gioventù pazza e movimentata degli italiani che provavano a sentirsi americani. Scorsese – da meanstreetsino – va a girare Woodstock portandosi i gemelli, convinto di uscire la sera, non sa che lo aspetta una perdizione diversa da Elizabeth Streets, e quel dettaglio dice come fosse lontano dai suoi coetanei.

La distanza veniva dall’asma, che lo porta al cinema dove c’è l’aria condizionata, e a guardare gli altri dalla finestra del suo primo piano: così nasce l’inquadratura scorsesiana, come racconta Nicholas Pileggi, il resto lo fa padre Principe – che sembra il personaggio di Bob De Niro in Sleepers di Barry Levinson: Padre Roberto Carillo – un intellettuale cattolico hemingwayano che consegna la noia di Martin alla grande letteratura.

Sfavoriti improbabili 

L’accelerazione del tempo e la rapidità di narrazione, invece, vengono da un professore della NYU. Aggiungere la piacevolezza del peccato, le storie dei fratelli Uricola: Robert “Curti” e Salvatore poi trasposto in "Johnny Boy" Civello in Mean Street. A un certo punto si vede Scorsese indicare a una giornalista vestita Prada l’incrocio tra Murder Mile e Devil Mile dove scaricavano i cadaveri – territorio di John Gotti – e poi arriva Joe Pesci, il suo vero specchio sporco, poche apparizioni e tutte esageratamente reali. Il rapporto che c’è tra Scorsese e Pesci è uguale a quello che c’è tra Scorsese e i Rolling Stones, insieme si raddoppiamo, rafforzano e diventando una somma diventano una forza diversa e trascinante, un vertice di violenza e bellezza: i pugni di Pesci, le urla di Jagger.

E da questo si può teorizzare un ciclo economico-cinematografico-scorsesiano, la dinamica è: gli intimano di cambiare un personaggio perché contro la morale e il costume, lui non ci sta, ha successo, ma poi deve ricominciare daccapo perché gli Studios non hanno memoria, il pubblico sì, per questo Scorsese – anche se non viene ricordato – può sfanculare la Marvel e dire che non fanno cinema ma parchi gioco.

I suoi personaggi principali sono tutti «sfavoriti improbabili» come dice Pileggi, eppure diventano apologhi, della violenza che gli Stati Uniti generano, ma non vogliono ri-vedere o pre-vedere, valga per tutti il Travis Bickle di Taxi Driver, scritto da Paul Schrader, ex marine reduce dal Vietnam, tanto che il suo

«You talkin’ to me?» potrebbe essere il manifesto anche dell’America di oggi. Che è differente dalle storie che Scorsese racconta su suo padre costretto a difendere i problemi creati dal fratello, Joe “The Bug”, zio di Martin, una abitudine alla discussione che tornerà utile per difendere i suoi film in fase di produzione, parlando e battendosi. I suoi film sono un affare di famiglia, non a caso i suoi genitori – Luciano Charles e Caterina Cappa – se la giocano a fama con i genitori di Maradona.

Tanto che gli portano la dipendenza dalla cocaina, la quasi morte – sarà l’amico De Niro a tirarlo via dal letto costringendolo a fare Toro scatenato, life imitating art and art imitating life: «Uscimmo un po’ fuori di testa ma succede» – e la rabbia analizzata da Isabella Rossellini con una capacità da Ernst Bernhard: dalle domande sulla vita e la morte al pensiero di non riuscire più a fare film, anche perché il suo fare cinema non è stato un pic-nic, come la conquista dell’Oscar come miglior regista (The Departed) che arriva tardi e con la convocazione per premiarlo di tre pezzi da novanta: Spielberg – che compare nel documentario spesso a ribadire la forza cinematografica di Scorsese e il suo stupore per le immagini scorsesiane –, Coppola e Lucas.

Il lieto fine

E la sua attesa è la dimostrazione di qualcosa che va al di là della sua filmografia: Scorsese nel lieto fine ci crede e lo vuole. E vedendolo insieme ai tre pezzi da novanta si capisce quello che Robbie Robertson dice: Scorsese è un’altra cosa, un eterno ragazzo che non fa calcoli, che insegue l’arte, tanto che gira gratis The Last Waltz mentre sta girando New York, New York, una pazzia o la normalità per un ragazzo che fa film.

«Farebbe il regista a tutti i costi» dice Leonardo DiCaprio, raccontando la pazienza e le ossessioni e come si sono legati attraverso Bob De Niro che gli dice: «Tieni d’occhio questo ragazzo», poi diventato il terzo della famiglia cinematografica. Padre, figlio e spirito santo. Per restare al cattolicesimo, che gli permette uno sguardo anche sulle donne come in Alice non abita più qui: «Guardare la vita da un’altra prospettiva della mascolinità», e Jean-Luc Godard chiosa: «Penso che sia un grande film americano».

L’altra grande donna scorsesiana è Fran Lebowitz che potrebbe essere una sua creatura, anche se nel documentario non c’è, come non c’è Hugo Cabret, ma c’è tutto il resto: si possono seguire le linee cinematografiche di Scorsese come se fossero linee della metro di NY, i vari percorsi del suo cinema, l’evoluzione della violenza da strada ad attico, non c’è distanza nella gestione del potere e nella condanna di Scorsese tra Quei bravi ragazzi e The Wolf of Wall Street, il capitalismo è la nuova mafia perché ti fa sentire al di sopra di tutto.

Ma Rebecca Miller ci consegna anche l’ironia di Martin Scorsese che è la sua vera forma di sopravvivenza: tutto è vero, niente è una confessione.

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