Cibo è il nostro inserto mensile che racconta il mondo attraverso ciò che mangiamo. Esce l’ultimo sabato di ogni mese sulla app di Domani e in edicola. In ogni numero svisceriamo un tema diverso con articoli, approfondimenti e commenti: il tema del numero di questo mese è la frutta che diventa un lusso. Qui troverete man mano tutti gli altri articoli di questo numero. In questa pagina, invece, tutti gli altri articoli di Cibo, che è anche una newsletter gratuita. Ci si iscrive a questo link


Inizialmente, si è attratti dal packaging: un melone, dal color giada perfetto e con delicate venature, avvolto in carta velina colorata rosa, verdina, bianca, a seconda dell’estro di chi lo ha preparato, ed infiocchettato con un grosso nastro, quasi sempre dorato (e quasi sempre di plastica) e una di quelle retine in schiuma (di nuovo in plastica) che fanno da cuscinetto protettivo.

Intorno a quest’abbondanza barocca c’è una scatola: a volte di legno, a volte di cartoncino, sempre pensata per aggiungere sia un tocco in più di strati da aprire per arrivare all’agognato melone, sia per l’effetto eleganza e ricercatezza. A questo punto si guarda all’etichetta con il prezzo, e manca il fiato. Circa 300 euro, ma nei negozi più lussuosi è successo di arrivare anche a più di mille. Euro.

Per un melone. Va detto che i negozi di lusso, i supermercati di prodotti rari e ricercati, offrono anche meloni impacchettati in modi ancor più raffinati: il picciolo, attaccato al frutto, è a T, oppure lungo, verde scuro e leggermente ricurvo, con un fiocchetto che lo sottolinea ed abbellisce. Il frutto è adagiato in una scatola di legno pregiato (quella, almeno, riutilizzabile) inciso a fuoco con alcuni caratteri in bella calligrafia, con il nome del melone, che è parzialmente avvolto dalla carta velina e, in alcune occasioni in cui l’eleganza è davvero tutto, perfino in stoffa soffice e vaporosa. Per i meloni di più alta gamma, la scatola in legno è poi ricoperta con un furoshiki, un quadrato di tessuto (in questo caso, di solito si tratta di raso di seta doppia) il cui nodo fa anche da manico.

I meloni più a buon mercato costano circa 80 euro, e vengono dunque ricoperti con meno attenzioni: un fiocco che lo avvolge dal basso in alto, ricordando vagamente quelli che hanno mal di denti nei fumetti di un tempo, e la retina di schiuma per proteggerlo da urti e colpi.

Il Giappone non è più l’eldorado costosissimo degli ultimi decenni del secolo scorso, ma anche rispetto a una decina di anni fa i costi, in generale, sono un po’ più avvicinabili. Del resto, i salari della maggior parte delle persone rendono meloni di questo tipo del tutto irraggiungibili, ma i frutti costosi e lussuosi, o anche costosissimi e lussuosissimi, restano una presenza fissa nei supermercati giapponesi. Se non sono acquistabili, possono almeno essere ammirati – e ci si può recare invece dal fruttivendolo abituale o nel supermercato sotto casa dove la frutta, per quanto comunque un po’ cara, ha prezzi meno strabilianti, ed è occasionalmente bruttina, o un po’ ammaccata, come dovunque altro.

Ragioni culturali

I motivi per rendere di lusso un prodotto della terra che in molti altri luoghi è considerato molto più modesto sono tanti, per quanto conoscerli non dissipa del tutto la perplessità. Partiamo dalle spiegazioni culturali: la frutta in generale, e i meloni di lusso in particolare, sono un oggetto/cibo non da utilizzo domestico, ma da regalo. Un bene di consumo, certo, ma nessuno si sognerebbe di portare a casa un frutto che costa centinaia di euro da mangiare dopo cena, magari davanti alla televisione mettendoselo in bocca senza farci troppo caso. Questi sono frutti per scambi prestigiosi, e per auguri importanti. Non solo per ingraziarsi qualcuno di importante, o per esprimere affetto, amicizia o riconoscenza a qualcuno di speciale, dato che ad una persona malata si auspica pronta guarigione non con i fiori ma con regali di frutta, che, se non possono essere consumati dal paziente per motivi terapeutici, vengono apprezzati da familiari e amici.

Che la frutta sia il perfetto regalo, va sottolineato, non è comune solo al Giappone, dato che sia in Corea che in Cina, che a Taiwan (che si presenta al mondo come “l’isola della frutta”) e in altri paesi asiatici, la frutta è la cosa giusta da portare quando si va a casa d’altri, sostituendo quello che in Italia potrebbe essere il gelato, il mazzo di fiori o la bottiglia di vino a seconda delle occasioni. E proprio in questi paesi, i frutti di lusso giapponesi sono venduti nei negozi di “delicatessen” migliori, con un prezzo maggiorato dai costi di trasporto e importazione, segno di prestigio infinito, o di follia. Ma per tornare alla frutta come messaggera di buoni auspici, ricordiamo che davanti a molti ospedali in queste parti di mondo si trovano grandi negozi o splendide bancarelle cariche di frutta, per portare colore, dolcezza e vitamine nei reparti ospedalieri.

La lista di frutti dai costi impensabili, e che si presentano con un’aura di esclusività totale, è piuttosto lunga: l’uva, in particolare, è seconda solo ai meloni, e di nuovo viene avvolta in strati e strati di velina, carta, cartoncino, fiocchetti e reti di schiuma, con un effetto finale da bebè avvolto nelle copertine, nemmeno fosse il primogenito di una famiglia reale il giorno del battesimo. Un grappolo di Ruby Roman, un tipo di uva che cresce solo nella prefettura di Ishikawa con acini grossi come una pallina da pingpong e, come vuole il nome, di un bel rosso rubino, visto in un supermercato di Tokyo questo agosto, sull’etichetta del prezzo aveva marcato un bel 188 euro. La Ruby Roman è disponibile sia con che senza semi, dopo una serie di accorgimenti che non ne modificassero il sapore pur togliendole i semi che sono durati una ventina d’anni, ma in ogni caso è considerata l’apice delle uve. L’uva di Fukuyama, reputata di grande qualità, costa meno, ma stiamo parlando pur sempre di una fortuna: 51 euro per un grappolo di acini scurissimi.

Si sale a 75 euro per un cestino, più piccolo, di uva moscata, un bel gruzzolo direte voi, ma che nulla è davanti a quello che si paga per un cocomero Densuke dell’Hokkaido, dalla buccia nera, e con un etichetta del prezzo che va guardata più di una volta per crederci, dato che in media uno di questi cocomeri costa un po’ più di 3000 euro. Come consumare un cocomero a questi costi è una domanda senza risposta, dato che se ce lo si può permettere, o se si hanno amici che ci possono regalare qualcosa di così scandalosamente caro, forse si è già assuefatti a leccornie e prelibatezze importanti più per il loro simbolismo che non per il loro gusto. Mangiarne una fetta solo per rinfrescarsi in una giornata di afa estiva costerebbe praticamente come delle vacanze per una famiglia intera.

Ma non è finita: ci sono le fragole bianche, dal nome Hatsukoi no Kaori, traducibile con qualcosa come “il profumo del primo amore” – sono state coltivate di recente, e sono note per il loro sapore “delicato” (non sanno di niente) e costano circa 10 euro l’una. Ma fanno un grande effetto se regalate alla fidanzata. Le mele Sekai Ichi, invece, non si fanno problemi di modestia nel dichiararsi, nel nome, le “prime al mondo”. A 20 euro la mela, sarà meglio che lo siano, anche se non è detto.

La lista continua con altri frutti più o meno sorprendenti: il mango dalla buccia rossa Tayo no Tamago, ovvero “l’uovo del sole”, è dolce e saporito, se si vogliono spendere più di 200 euro per assaggiarlo. Cresce nella prefettura di Myazaki, dove sono sorvegliati e monitorati, spostando le foglie per farlo crescere al sole affinché la buccia sia il più rossa possibile. I più grossi, dal peso minimo di 3 etti e mezzo, con più della metà di buccia rossa, sono messi all’asta. Ad oggi il record lo detiene un paio di Tayo no Tamago che nell’aprile del 2019 fu aggiudicato per 4000 euro. Duemila euro a mango.

La dicotomia

La frutta di lusso prevede anche una coltivazione di lusso: i meloni più cari sono stati cresciuti tagliando dagli steli striscianti tutti gli altri frutti, in modo che il nutrimento andasse solo all’unico frutto rimasto. I cocomeri dalla buccia nera sono coltivati solo vicino alla cittadina di Tohma, che ha un terreno particolare, vulcanico, molto ricco di minerali, e i contadini fanno attenzione a girarli in modo regolare nel corso della giornata, per far sì che abbiano un aspetto uniforme, nero omogeneo senza macchie giallastre o verdine. Ora che anche i frutti possono essere preparati a tavolino, erano stati prodotti anche dei cocomeri a piramide; quadrati, che potevano essere affettati come pancarré, e perfino a forma di cuore – ma non hanno avuto successo. La novità della forma, davanti a un gusto piuttosto standard, non giustificava spendere circa 600 euro a cocomero, nemmeno in un paese abituato alla frutta “di lusso”.

Prima di queste ingegnosità, e prima della facilità con cui oggi il cibo viene importato ed esportato, la frutta giapponese soffriva delle scarse terre arabili dell’arcipelago, consacrate in particolar modo al riso.

Era dunque un cibo raro, con l’eccezione di alcuni tipi di frutto molto locali (come i cachi, che infatti chiamiamo anche noi con il loro nome giapponese, o le mele Fuji, anche se queste oggi sono quasi tutte provenienti dalla Cina). Da lì, la grande attenzione al packaging, dato che il frutto, in quanto cibo/oggetto ambito e raro, sarebbe stato offerto in regalo. La dicotomia è una costante: frutti lussuosi e rari impacchettati con grandi sprechi, e che fanno grande utilizzo di manodopera e tecnologia, e poi la frutta per tutti i giorni, mele pere e mandarini, abbordabili e da mettere nel sacchetto che ci si porta da casa.


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