È stato difficile sistemare in poco più di cento pagine quello che Michela Murgia avrebbe voluto e potuto spiegare, raccontare, in almeno il triplo. Il manoscritto finale di Dare la vita, il suo primo libro postumo appena uscito per Rizzoli, era come un gheriglio, come un gomitolo o un cervello, come un groviglio di viscere quando l’ha consegnato, il giorno stesso in cui ha smesso di respirare e di scrivere quasi al contempo: conchiuso e annodato, annidato in un guscio plasmato per essere infranto, idealmente aperto verso potenziali plurimi.

L’autrice sapeva che in fase di revisione quello gliommero totipotente sarebbe andato in mano a chi poteva indovinare dove conducessero le indicazioni rapide, febbrili, che lasciava nel file — controllare qui il mio articolo di due anni fa su mafia e familismo; ricordare da dove viene la citazione da Virginia Woolf; qua aggiungi dal dibattito su Facebook del 2016; queste promesse vanno nel libro, poi decidiamo dove…

Una mappa del tesoro; un archivio d’idee e domande ancora aperto al momento della consegna: ancora squadernato, intenzionalmente impossibile da chiudere, da risolvere, del tutto.

Maternità e famiglia

Oltre a scrivere con impeto infatti, nutrita di ghiaccioli e anguria e pillole oncologiche, nell’estate del 2023 Michela Murgia ha soprattutto ripercorso a ritroso un tragitto di strada lungo come la sua vicenda d’intellettuale e scrittrice: almeno quindici anni di proteiformi ma coerenti riflessioni su di sé e sulla società. Ha ricordato quanta vita ha dato al tema della sua ultima fatica attiva: si è messa sulle sue proprie tracce, si è stanata.

E in effetti era da anni, forse da sempre, che ragionava e scriveva, in fondo, della stessa cosa: una cosa che viveva in prima persona, una cosa che la definiva e che non sapeva definire. Quel che ha detto in Dare la vita, e che avrebbe continuato a dire per altre cinquecento pagine se avesse avuto il tempo, lo si può riassumere in una frase (anzi due): la maternità non si può ridurre all’esperienza della gravidanza, la famiglia non è una questione di sangue. È tipica delle idee veramente importanti la qualità di essere al contempo sintetizzabili in una riga ed esplorabili per interi volumi di ragionamenti.

Non so se, tra le molte scintillanti che ha avuto nella sua vita, ci sia un’idea più importante di quella che Michela Murgia esprime, autorevole e piena di dubbi, in questo annodato libro orfano di lei, che mi è toccato in sorte di sciogliere e rassettare perché ognuno dei suoi bandoli fosse al suo posto ora che raggiunge le migliaia di lettrici e lettori cui era destinato. In ogni caso è a questa idea di maternità e famiglia che ha affidato l’ultimo dei suoi scrupoli autoscopici, politici e narrativi.

In origine, questo libro doveva essere un intervento sulla gestazione per altri. Chi segue Murgia non se ne stupirà: è un tema di cui ha scritto per anni sui social media e nei giornali, l’argomento che ha trattato nell’unica trasmissione televisiva da lei ideata e condotta (e per cui quella trasmissione è stata prematuramente cancellata dalla Rai), il punto su cui si è scontrata pubblicamente persino con compagne di strada del femminismo italiano.

Ma soprattutto è un tema che mette in questione tutti i principali argomenti della sua opera: il mistero della filiazione, che unisce i suoi due più celebrati romanzi, l’intreccio di religione legge ed economia che cerca di controllare i corpi e i destini delle donne, il rapporto tra femminismo e attivismo omo-bi-trans, i diritti civili, la biopolitica nella Bibbia e nella Costituzione.

Anche nel suo ultimo libro di narrativa, Tre ciotole, uscito per Strade Blu di Mondadori la primavera scorsa e letto da centinaia di migliaia di persone in questi mesi, c’è un racconto intero, inquietante e scellerato, dedicato al tema della GPA.

La parola queer

Tuttavia, proprio dopo l’uscita di Tre ciotole, qualcosa è cambiato. Nel raccontare la sua esperienza con il cancro, invitando tutta l’Italia a ripensare i propri pregiudizi sulla malattia, la morte e la felicità, Michela Murgia ha cominciato anche a raccontare in prima persona, senza il filtro della finzione letteraria, la sua famiglia d’anima, spendendo una parola che aveva già mobilitato nel suo ultimo saggio di “Catechismo femminista”.

Quella parola, ‘Queer’, è stata dibattuta tutta l’estate mentre lei curava un numero speciale di Vanity Fair (il numero del Pride) sulle famiglie queer appunto, e lo regalava al papa in persona che si metteva a sfogliarlo nella Cappella Sistina. Murgia si è accorta che il tema della queerness, che da quasi cinquant’anni anima un intero campo di studi teorici, filosofici e socio-politici, non era solo evidentemente urgente nell’Italia dei saluti romani e del ritorno di un represso iper-conservatore, ma anche collegato a quello che stava affrontando lei.

Famiglie queer e gravidanze surrogate sono in dialogo su molti nodi fondamentali: il rifiuto delle norme e della normalità, la staticità dello Stato rispetto ai mutamenti della società, i soldi, e l’opposizione tra diritti di sangue e scelte d’intenzione. Vicinissima alla scadenza per la consegna, e ancora più vicina allo scoccare della sua ora, come al solito Michela ha compiuto un atto di fede e di coraggio, e ha deciso che il libro non sarebbe stato solo un intervento sulla Gpa, ma anche un pamphlet sulla maternità d’anima, sulla queer family, sulle esperienze relazionali che l’hanno resa la donna che era nell’estate afosa e febbrile del 2023.

Contro il familismo

Quando, in Dare la vita, Murgia scrive che la sua anima non ha mai desiderato generare libri mansueti e accondiscendenti dice, come sempre, la verità. Questo libro non è un’ascetica e serena eredità spirituale di saggezza, ma una scintilla esplosa sui più infiammabili scampoli della cultura, della legislazione e della vita quotidiana del nostro Paese. È un libro sulla famiglia, ma spietatamente contro il familismo.

È un libro che invoca un’apertura alla gestazione per altri, ma al contempo ne esibisce con franchezza gli aspetti controversi ed eticamente problematici. È un libro femminista e queer, e tuttavia critica apertamente uno dei più importanti movimenti femministi italiani e rimprovera la comunità LGBTQIA+ (a cui a un certo punto sottrae per qualche pagina persino la Q di queer) di essere troppo spesso sedotta da aspirazioni normative e dal pensiero del binarismo.

È tra i libri più personali dell’autrice, si fonda su esperienze raccontate in prima persona, addirittura include rivelazioni autobiografiche che non aveva mai condiviso in pubblico, e nonostante questo punta tutto su domande alte, tanto pratiche quanto universali, chiedendoci senza mezzi termini di dibatterle e persino di contraddirle. L’unico errore che si può fare leggendolo è quello di guardare il dito di Michela mentre lei indica la luna: non accorgersi del calor bianco politico e morale che forgia le sue ultime, acuminate riflessioni.

Una su tutte, quella che propone una lettura intersezionale del nuovo proletariato, del razzismo nei confronti dei migranti, e delle politiche della natalità che rifiutano di contemplare l’opzione GPA e le dinamiche relazionali queer facendosi scudo della retorica sul bene dei bambini. Ma va menzionata anche la diffidenza nei confronti del paradigma dell’inclusione, semanticamente legato alla chiusura e alla proprietà, che Murgia collega con l’Editto delle chiudende nella Sardegna coloniale e con la sua coscienza indipendentista. È in simili passaggi di straordinaria lucidità e sintesi che le due anime del libro si fondono in una proposta tanto inedita quanto radicata in anni di battaglie.

La disobbedienza

La più grande sfida nel curare un libro di Michela Murgia senza poterne più parlare con lei è proprio quella di gestire la scandalosa, vitale contraddizione che è spesso alla radice del suo messaggio. Da un lato, per esempio, Murgia ci dice da sempre che l’individualismo è la più dannosa forma di miopia, che le storie di eroi prescelti e solitari servono a farci sentire sudditi e a perdere di vista le meccaniche del privilegio, che l’unico futuro desiderabile va immaginato nel segno della comunità, della curatela, della solidarietà: che siamo tempesta, come recita il titolo del suo unico libro per ragazzi.

Allo stesso tempo però i suoi romanzi e racconti, i suoi saggi e la sua narrazione di sé sono animati da un invito costante all’autodeterminazione, alla presa di parola, al salvarsi da sé: a una disobbedienza radicale che sembra il contrario del collettivismo senza leader né eccellenze che, proprio attraverso quei testi e quell’inconfondibile stile individuale, la sua voce ci propone.

Dare la vita può essere letto come un libro sulla libertà degli individui, oppure come un libro sul fatto che l’unica salvezza di questo mondo apocalittico sarà, se ci sarà, collettiva e plurale, rizomatica, comune. Raccogliendo la sfida di questa idiosincrasia irriducibile, a me pare che Michela intenda rimanere incorreggibilmente sulla soglia.

Come ci invita a fare quella branca della teoria queer che studia, dagli anni Novanta, il paradigma della bisessualità al di là della sessualità stessa, Dare la vita è un luminoso tentativo di rendere radicale la via di mezzo, di fare rivoluzionario non ciò che estremo ma ciò che è in dubbio, in bilico, fluido. Queer, appunto.

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